Intervista: Slash

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di Mario Ruggeri

La leggenda di Slash, è Slash. Quando lo trovi seduto comodamente su di una poltrona, lo vedi alzarsi e venirti incontro per salutarti, come se ti conoscesse da tempo, ringraziandoti per il tempo che stai dedicando lui, ti rendi conto che il segreto di un uomo che avrebbe potuto sfruttare la sua fama, ed invece ha scelto la sua musica, è proprio nell’essere rimasto un autentico rocker, fatto di debolezza e di certezza nella propria arte. Chi pensa a Slash come uno degli ultimi miti del rock and roll moderno non ha tutti i torti. Finita l’avventura dei Guns’n’Roses, e tristemente risoltosi il conflitto con l’anima inquieta e protagonista di Axl Rose, Slash ha scelto di continuare proprio da dove è partito: da una Gibson Les Paul e dall’amore per le radici blues del rock. Lo ha fatto subito, negli Snakepit, e poi per tutta la sua carriera solista. Suonando sempre nello stesso modo, non cercando mai virtuosisimi ma andando ad estrarre l’essenza del rock stesso dalla sua radice. Il suo stile, inconfondibile, accompagna un look che non è mai cambiato. Maglietta, jeans, occhiali scuri da trent’anni, ogni giorno come tutti gli altri. Slash non ha scelto di essere Slash. È Slash: nel bene e nel male. La sua forza di musicista sta nell’amore per i suoi gruppi preferiti e la devozione per l’energia vitale del suono heavy, che lo ha da sempre accompagnato. Una forza talmente prorompente da permettergli , nel suo ultimo lavoro, di firmare uno dei dischi più convincenti di tutta la sua carriera. Un disco fatto di sudore ed energia. Quella che lo Slash uomo, trasmette dopo un secondo dalla prima domanda.

Esci con un disco nuovo che ha due componenti fondamentali: un suono rabbioso, e una lunghezza fuori standard per il genere. Come se, da una parte volessi ribadire quanto l’adrenalina sia per te il motore della musica, dall’altra come i compromessi non facciano parte del tuo stile.

“È la stessa cosa che mi ha detto la casa discografica, quando ho presentato il nuovo album. Erano contenti, ma qualche dubbio sul numero di pezzi lo hanno avuto. Erano troppi, in effetti, ma io non volevo scartare nulla di quello che consideravo essenziale nelle composizioni dell’ultimo anno. Chi se ne fotte se il mercato chiede un numero limitato di brani, non sono alla ricerca di nuovi fan, e probabilmente non arriveranno mai. Io parlo al mio pubblico e loro sanno che io sono libero e scelgo in funzione di quello che ho dentro”.

Onestamente, era da molto tempo che non ti sentiva così a fuoco, concentrato e pieno di energia.

“È merito dei tre mesi che mi sono preso di pausa da tutto, compreso la chitarra. Ho fatto quattro anni correndo da un disco all’altro e da un tour all’altro e mi sono accorto che stavo perdendo tensione. Avevo bisogno di staccare. L’ho fatto senza neppure pensare alle nuove canzoni. Ho spento la chitarra, mi sono goduto la mia vita, fino a quando non ho sentito veramente la voglia di suonare ancora. Lì mi sono messo in studio, e le canzoni sono nate una dietro l’altra, e sono d’accordo sul fatto che abbiano un’energia particolare”.

A volte penso che la tua anima, in larga parte, sia stata depositata in The Spaghetti Incident dei Guns’n’ Roses e ti spiego perché: se era chiaro che tu provenissi dai Rolling Stones, come estrazione chitarristica, forse non lo era il fatto che fossi così dentro il punk. Oggi non sei un musicista punk, ma hai quell’urgenza espressiva che arriva da lì.

“Beh, se consideri che gli Stooges sono uno dei miei punti di riferimento, insieme ai Rolling Stones, hai sicuramente un quadro esaustivo di me come musicista. Se dovessi descrivermi userei sicuramente il confine tra questi due estremi e lì, sì, ci sono io. Poi, ovvio, il blues è dentro la mia testa, ma lo interpreto con la rabbia e l’energia degli Stooges. Di questo ne sono fiero”.

In questo disco addirittura emerge uno stretto legame sia con i Blues Breakers sia con gli Yardbirds…

“Non posso che prenderlo come un complimento, perché sono due band che adoro, insieme ovviamente agli Zeppelin ma anche ai Cream, ai Cactus, e a tutta la radice hard blues. Però è vero, in questo disco ci sono chiari riferimenti, in chiave moderna, agli Yardbirds, che ultimanente ho riscoperto e studiato a fondo”.

Mi sono chiesto se in questi trent’anni tu non ti sia mai stancato di suonare e di vivere su di un palco. Sei sicuramente uno degli artisti più costanti che il rock abbia avuto, dagli anni ’80 in poi.

“No, no e ancora no. È la mia vita e non la cambierei per nulla al mondo. Per me salire sul palco equivale a quello che mangiare significa per altre persone. È essenziale, fondamentale, per il mio equilibrio interno. Ho bisogno di vivere con un pubblico davanti, con la mia chitarra, con i difetti e le imprecisioni di un concerto dal vivo, ma anche con la sua libertà. Morirei se non lo avessi, ed è per questo che non ho mai avuto l’intenzione né la voglia di abbandonare per un po’ la musica o ritirarmi. Per me il rock è l’unica cosa che conta. Il resto non mi interessa”.

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