Intervista: Siegfried

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di Stefano Morelli

Raggiungiamo i modenesi all’indomani del complesso e avvincente quadro denominato Salmo delle Tempeste. Il terzo atto di una serie iniziata col 2011 e che in poco tempo ha visto la band originaria di Sassuolo porsi come una delle realtà più promettenti dell’odierno panorama rock nostrano. Esperienza determinatasi non solo nel solco sonoro dei temi nu folk o della canzone d’autore italiana (De André e Battiato, tra gli altri) in chiave post punk/wave ma calibrata in un gesto estetico, vedi la diretta filiazione con Dinamo Innesco Rivoluzione, capace di aggiornare le vesti provocatorie di certa avanguardia novecentesca (dadaismo e anarco futurismo in primis) e contemporanea. Ma è soprattutto nell’arco temporale a cavallo tra il 2013 e oggi, ossia nell’incavo tra le istanze rivoluzionarie di CementoAcciaio e quelle più plumbee e fataliste del sunto odierno, che va colta la necessaria lettura di uno spirito inquieto e intransigente, giunto a una proverbiale partnership sia con Cristiano Santini e i Disciplinatha sia con Mercy Carpaneto e Ianva. Da questa parabola comunitaria ha inizio il confronto con la loro opera, per voce di Giovanni ‘Leo’ Leonardi e Simone Poletti.

Da quali istanze si è originato il progetto Siegfried e come sono sorte le collaborazioni con Cristiano Santini e Mercy Carpaneto?

“Siegfried nasce qualche anno fa come progetto prettamente musicale, inizialmente con un’idea vicina al neofolk e ai Death in June. Presto però le cose hanno avuto un’evoluzione, sia musicale che concettuale. Musicalmente ci siamo resi conto che la composizione eterogenea della band portava ad una sintesi interessante e naturale che abbiamo deciso di assecondare: l’evoluzione è tuttora in corso. Siegfried rappresenta l’archetipo dell’eroe romantico, c’entra senza dubbio con Wagner, ma pure con Fritz Lang e persino col Principe de Il Lago dei Cigni di Čajkovskij, affonda le sue radici nel mito e nella storia ma ci sforziamo di tenerlo legato in qualche modo alla contemporaneità, e precisamente all’Emilia disperata del XXI secolo. Con Simone poi abbiamo iniziato a esplorare determinate tematiche, frutto di istanze a nostro parere naturali, dovute per lo più alle circostanze sociali odierne. Crediamo di non sbagliare indicando nell’urgenza la caratteristica fondamentale della nostra ancor breve storia. La cooperazione con Renato “Mercy” Carpaneto, Cristiano Santini, Dario Parisini, Marco Maiani e i Disciplinatha è venuta di conseguenza. Gli Ianva erano uno dei nostri riferimenti, anche dal punto di vista lirico, e collaborare con loro è stato l’avverarsi di un desiderio più volte espresso. La scelta di Cristiano alla produzione è stata automatica, sentivamo il bisogno di qualcuno che ci aiutasse a tirar fuori il meglio e a trovare la strada giusta”.

CementoAcciaio asseriva che l’umanità è incapace di credere in un nuovo mondo perché ha smesso di sognare e si rifà alle vecchie ideologie poiché incapace di vederne di nuove. Citate un passo di Tolstoj dove è messo in luce il dramma dell’ideologia della ‘folla’. Nel nuovo album poi ritroviamo un canto, Nero D’Ossa, che invita a trasformare il gregge in branco. In un Occidente dove i concetti di ‘re-azione’ e ‘rivoluzione’ paiono essersi assopiti nell’omologazione e nella globalizzazione, quale potrebbe essere l’alternativa per rinsavirli a nuova coscienza?

“Bella domanda…non lo sappiamo. Per quanto possano gridar forte le poche voci lucide e coerenti e per quanto possiamo essere incisivi noi, Ianva e gli altri artisti che si muovono in questa direzione, credo sia una sorta di lotta contro i mulini a vento. La stessa audience che ti sostiene, a volte, pare farlo solo per lavarsi la coscienza, come in una terapia di auto assoluzione. Ecco, sarebbe sufficiente riuscire ad uscire da questo atteggiamento autoindulgente e assolutorio e prendere atto delle proprie responsabilità. Troppe le voci che incolpano di questa situazione politici ed affaristi. La classe politica che abbiamo è il perfetto specchio di ciò che siamo. Gli affaristi che depredano, a parti invertite, rimarrebbero allibiti di fronte all’ingordigia di coloro che li additano come sciacalli”.

Forse movimenti, tra l’altro profondamente fraintesi ma disciplinanti, come il primo costruttivismo e il futurismo nel ‘900, volevano deviare da questa possibile china. Come s’inserisce il progetto Siegfried in questo tentativo di rinanimare un atteggiamento, non solo estetico immagino, che abbia a cuore il fine disinteressato e eroico dell’Amore?

“Il punto è proprio nell’atteggiamento, anzi, più precisamente nell’attitudine. Siamo stati educati a un’attitudine molle e remissiva, viscida e infame: ci viene insegnato a non ribellarci alle angherie, a non alzare mai la voce, se non contro i più deboli. Ci insegnano a porgere l’altra guancia, ad essere ‘moderati’ e al contempo a trasgredire le regole del buonsenso e dell’etica. L’uomo perfetto della società che abbiamo, noi tutti, costruito, è un depravato che passa ore a sproloquiare su facebook e a masturbarsi davanti a chat-roulette, godendo delle immagini di scontri ai quali non avrebbe mai il coraggio di partecipare e aspettando la prossima attrice nuda o la prossima decapitazione. Un modello nel quale imbecilli senza alcun talento, se non quello per l’autopromozione, diventano eroi e esempi da seguire. Un modello nel quale ‘parole’ come amore, onore, patria, sacrificio, bellezza, virilità, coraggio, sono state talmente denigrate e ridicolizzate da diventare difficili da pronunciare”.

I CCCP quando ‘tifavano rivolta’ ineggiavano a Majakovskij e Mishima come esempi di ‘spiriti guerrieri’. L’arte può essere ancora un’alternativa in tal senso? Gli Ianva con La Mano di Gloria ipotizzano un incontro tra le identità ancora oneste, specie tra quelle agli antipodi ideologicamente e socialmente, nel tentativo di ristrutturare anzitutto un centro della propria umanità. Eumeswil, la canzone, invita ad ‘armarsi di un pensiero’: rivolta anzitutto interiore per rispondere alla Tempesta?

“Come espresso in CementoAcciaio, siamo convinti che prima di tutto sia necessario ricostruire una capacità di vedere al di là dei modelli attuali o di quelli di 40 anni fa. È necessario ricostruire un immaginario e un pantheon ideale ben diverso dai riferimenti attuali. In Italia oggi la rivoluzione non è possibile, perché non c’è nessuno disposto a farla. Senza addentrarci nella diatriba che ne è scaturita, ti porto ad esempio la rivolta in Ucraina: quanti italiani conosci disposti a passare dal divano agli scontri armati, abbandonando lavoro, famiglia, comodità e illusioni? Prima va ricostruita una coscienza di popolo e una idea di patria, altrimenti non c’è nulla da difendere e nulla da riconquistare. In questo senso, le divisioni ideologiche hanno poco senso, avendo tutti davanti un nemico ben più terribile. Ma temo che non saremo noi a scardinare una contrapposizione che fa quasi comodo, fornendo un nemico per il quale siano facili sia l’identificazione sia il trovare motivazioni”.

Come mai l’opera è ispirata-dedicata alla figura tormentata dell’anarchico francese Jules Bonnot? Si può leggere, come credo, in Bonnot l’archetipo e il riferimento più vivo della condizione oderna riferibile ai lavoratori occidentali?

“Di Bonnot non può che affascinare, anche ad un esame superficiale, la continua ricerca della felicità. Non già della ricchezza ma della felicità, fino alle estreme conseguenze se ciò gli viene impedito non dal destino ma da altri esseri umani. Ecco, la felicità di Bonnot è la nostra bellezza. Andiamo cercando la bellezza, il mondo ne è pieno, l’umanità decisamente no, non più. Poi potremmo discutere ore sulla condizione dei lavoratori, sul precariato, sulla perdita di credibilità dei sindacati, sulla sconfitta della lotta armata, eccetera..”

Restando sul tema, nel brano Cemento e Acciaio si fa riferimento al ‘legittimo erede del ferro’ e al ‘sangue di operai’. Può essere intesa come visione che riconduce a una dignità di colui che crea? Quasi un paradosso se pensiamo come oggi il concetto di lavoro – specie nell’ottica manuale/artigiana – sia inerente al solo prodotto e l’individuo valutato nell’ottica di un mero schiavo/tipo per la ‘nuova forma’…

“Partiamo dal significato di quei passi perché hanno creato qualche incomprensione. Ad un certo punto il pezzo dice: “sangue di operai nei pilastri del domani”. Questo semplicemente perché siamo convinti che le rivoluzioni, i cambiamenti, non si facciano con le bandiere e i buoni sentimenti. Quindi, per rifondare il domani è necessaria una, ora utopistica, mobilitazione popolare. Insomma, la storia insegna che le rivoluzioni si fanno col sangue delle masse, se le masse (operaie appunto) non sono interessate semplicemente non si fanno. Crudo, ma è ciò che pensiamo. Detto ciò, il tuo discorso tocca un tema reale e al quale siamo sensibili. Siamo circondati da un crescente ritorno alla manualità, al tentativo di recuperare capacità artigianali ormai perdute, è una cosa difficile da fare ma al contempo una delle poche note positive nell’attuale crisi economica. Questo però vale per il self made business. Chi si costruisce una propria forma di sostentamento e una propria professionalità lo fa spesso in questi termini e ha possibilità, limitate ma concrete, di crearsi un proprio spazio. All’interno del sistema-industria, così come è concepito oggi, non crediamo ci possa essere più spazio per un riscatto.

In Salmo delle Tempeste emerge anzitutto un chiaro invito a una ‘resistenza spirituale’. Vorrei chiedervi quanto il retaggio con l’idea umana dell’Anarca jungeriano abbia determinato un approccio più teatrale e operistico nell’evoluzione del tema sonoro/concettuale, pur sempre fedele al post punk autorale e a un folk identitario mai esule dal tocco elettronico…

“In parte lo ha determinato. Durante l’anno intercorso tra la pubblicazione di CementoAcciaio e Salmo delle Tempeste ci siamo trovati a sviluppare quegli stessi concetti cercando nuove chiavi di lettura, non più presa di coscienza fine a se stessa, francamente non ci piaceva vederci in “piedi sopra le rovine”, ma piuttosto volevamo intavolare una ‘dichiarazione di guerra’, un ‘manifesto programmatico’. Ecco quindi che ci siamo ritrovati a rivedere certi vecchi arrangiamenti. Esempio lampante è il brano Nella Nebbia, contenuto nel nostro cd d’esordio. La produzione abbastanza scadente e la nostra inesperienza di allora avevano finito per penalizzare la sua resa emotiva. Ora suona decisamente meglio, crediamo. L’idea folk rimane parte del nostro DNA, così come il retaggio post punk, ma non ci piace porre limiti alle possibilità espressive e credo che il futuro riserverà delle sorprese. Non ci sentiamo parte di nessuna presunta scena e proprio per questo siamo assolutamente liberi di esplorare territori sempre diversi”.

Eumeswil musicalmente pare un’algida e cosmica evoluzione dei Kirlian Camera, come si è definita l’identità sonora del brano?

“L’accostamento è singolare poiché abbiamo scoperto solo recentemente il lavoro di Bergamini e soci. Effettivamente abbiamo lavorato per sottrazione, concedendo spazialità ai synth e ai pattern elettronici. L’idea era di evocare l’andamento del Salmo, per questo la voce diventa meno teatrale, più fredda e monocorde: il mantra acquisisce potenza in questo modo e diventa imperativo. Ora possiamo tranquillamente ammettere di non aver inventato nulla e i KC lavoravano in questo modo quando noi andavamo ancora alle scuole medie… ma questo non è tempo di avanguardie musicali, ne siamo ben consapevoli. Il nostro sforzo sta nel costruire belle canzoni, sperimentando anche con soluzioni che in passato non erano la nostra ‘cup of tea’”.

Le sonorità vivono di uno spazio lirico e immaginifico maggiore, come se fosse stato preminente dare più tempo e distanza al cuore emotivo della narrazione. Che studio è stato affrontato in tal senso? Abbiamo notato che pure l’anima folk, allineata a una certa poetica anarchico libertaria cara a De André e Gang presente nel precedente lavoro, qui ha incontrato una ridefinizione più fatalista…giusto?

“Avete centrato quello che è stato il nostro intento principale, ed è ciò che ci siamo detti in studio con Mr. Santini. L’idea era di affrancarci dai “fiorentinismi” e dallo stato di figliocci di Diaframma e Ianva, è stato uno sforzo notevole ripensare da zero un certo modo di cantare. Abbiamo insistito anche sulla dizione, un aspetto che non avevamo mai preso in considerazione ma che ci ha consentito di rendere più intellegibili le parole evitando di tenere le voci in primo piano nel missaggio. La passionalità ha ceduto il passo alla freddezza e al fatalismo, come il guerriero che accetta la sua condizione di quasi sicuro perdente, ma non per questo rinuncia alla battaglia. Una condizione ben lontana dal nichilismo che spesso viene associato alla scena gotica. Da qui anche le parti strumentali: più dilatate e atmosferiche. Un’evoluzione che pare trovare nuovo slancio nelle composizioni alle quali stiamo lavorando attualmente, tra l’altro”.

sigfried salmo delle tempeste

L’apparato tecnocrate che dominava i colori di Cementoacciaio viene sostituito in Salmo Delle Tempeste da evocazioni ‘naturalistiche’. Il rosso del sangue lascia il posto al grigio-marrone della sabbia. Penso inoltre ai simboli dell’Orso e della Dea ritratti in copertina e all’Albero che resta in piedi solitario malgrado le raffiche. I tempi che si profilano suggeriscono più che mai l’adeguamento evoliano al Cavalcare la Tigre ma quali sono, a vostro parere, i veri ‘nemici’ oggi? Quelli che genereranno, e stanno generando, La Tempesta?

“Fra CementoAcciaio e Salmo delle Tempeste è cambiato prima di tutto il nostro stato d’animo. CementoAcciaio segnava l’accettazione di una realtà infausta quanto non più eludibile, mentre Salmo delle Tempeste è la prima istintiva reazione a tutto questo. Dice: “siamo qui, non ci spostiamo, fronteggiamo la tempesta e vediamo che accade”. La tempesta è già arrivata da tempo, la viviamo ormai da anni, solo che, sotto la pioggia, abbiamo continuato a credere in chi ci diceva che splendeva il sole. E oggi molti credono ancora in chi parla di schiarite. Semplicemente stanno distruggendo tutto ciò che rappresenta(va?) la nostra civiltà e la nostra tradizione, dagli oggetti fisici al modo di vivere e pensare. Chi? Prima di tutto noi stessi, con il nostro atteggiamento passivo. Ma è indubbio che tutto questo procuri dei vantaggi incalcolabili a chi tira le fila di questo mondo occidentale, dall’economia alla società. Ormai le azioni sono talmente evidenti e scoperte da rasentare il palese, il tutto alla ricerca di sempre maggior potere e profitto. Abbiamo fantasticato per anni, nei film e nei libri, di alieni che scendono sulla terra per succhiarne le risorse, beh…abbiamo una classe dirigente “reale” che lo sta facendo da decenni”.

Entrando nel merito del rapporto con Dinamo Innesco Rivoluzione… Simone, da quali istanze è nata l’esigenza di creare DIR e in quale contesto si è formata la tua abilità estetica?

“Dinamo nasce come progetto nel 2008, perché, fra le altre cose, sentivo la necessità di mettere testa ed energie in qualcosa che fosse produttivo. Sono passato attraverso diverse esperienze, anche di militanza, e dico spesso che ho provato la strada per fare la rivoluzione almeno tre volte, senza successo. Ad un certo punto ho dovuto ammettere con me stesso che forse stavo sfruttando male le mie energie, in modo inefficace. Mi interessavano molto di più l’arte e la musica, ma non so suonare nulla, sono stonato e fuori tempo, potevo solo cercare di mettere in moto ciò che sapevo fare meglio e trarne il massimo dal punto di vista espressivo ed estetico. Sin da bambino ho sempre lavorato con la grafica, il disegno, le immagini e da una ventina d’anni è pure il mio mestiere: ho provato a dipingere ad olio, ma ci vuole troppo tempo e una tecnica che non possiedo. Quindi ho deciso di fare ciò che mi appassiona di più e ciò che mi viene meglio, ossia grafica e parole. In altri termini: pubblicità. Solo che faccio pubblicità a ciò che penso e non ad un prodotto”.

Sfogliando gli artwork elaborati con Disciplinatha, Ianva e gli stessi Siegfried, emerge un forte legame sia con l’estetica delle avanguardie novecentesche – penso al dadaismo così quanto al futurismo – sia con una radice tradizionale e neo pagana espletata non solo in immagini ma anche in simboli. Da dove si origina il bisogno di questa ambivalenza simbolica? Si può parlare di approccio archeofuturista, quantomeno su alcuni temi?

“Purtroppo non ho avuto l’occasione di frequentare un istituto d’arte, quindi tutta la mia (scarsa) cultura artistica si è formata come autodidatta. Per questo motivo ho letto e guardato molto e mi sono lasciato influenzare da ciò che mi piaceva, senza alcun filtro e senza alcuna preclusione stilistica. Amo follemente l’arte propagandistica sovietica e cinese e sono irresistibilmente attratto dal futurismo e dal costruttivismo. Mi ha influenzato tantissimo Shepard Fairey, ma ultimamente mi nutro di Fornasetti, Haussmann e Müller Brockmann. Su tutto questo poi ha influito il mio lavoro nel campo della pubblicità e la mia abitudine ad usare le parole e la sintesi iconografica per comunicare. Quindi mi capita di usare collage e montaggi neo-dadaisti, simbologie meta-politiche e neo-pagane… insomma, ciò che mi colpisce resta lì a decantare e poi viene risputato fuori, ri-elaborato e “piegato” al messaggio. Inoltre, ho avuto il grandissimo privilegio di lavorare con artisti che mi hanno permesso di realizzare progetti che ho sempre sognato (coi Disciplinatha ci son cresciuto e ascolto IANVA mentre lavoro ai miei progetti) e di farlo in quasi totale libertà, sperimentando ogni volta uno stile e un “tratto” diverso”.

Quanto gioca la provocazione in chiave rivelatoria nella scelta dei messaggi-parole e delle immagini? Nel manager senza volto di CementoAcciaio, ad esempio, abbiamo colto un’attinenza con la scheletrica Statua della Libertà dei primi Disciplinatha… Un modo ulteriore per rinnovare la luce degli ‘occhiali’ carpenteriani?

“I manager senza volto di CementoAcciaio sono una rappresentazione di coloro che ci stanno distruggendo, ma sono anche un po’ dei “consulenti d’immagine” occulti che ci indicano cosa dire e come dirlo. Ho tentato per giorni di dare loro un volto, poi ho capito che non ero in grado di rendere ciò che volevo perché un volto non poteva e non doveva esserci. In ogni caso, sia per quanto riguarda Siegfried, sia per ciò che concerne i progetti legati a Dinamo, tutto parte dal messaggio. Per anni ho fatto “belle cose” senza costrutto, poi un grande amico (lo scultore e pittore Fabrizio Loschi) mi ha fatto notare che mi stavo nascondendo dietro a una facciata. Da allora, anche grazie alla scossa data dal progetto con i Disciplinatha, ho piegato ogni cosa al messaggio. Ogni elaborato è creato per trasmettere un messaggio, se è anche gradevole esteticamente tanto meglio, ma non è la gradevolezza il fine, anzi…”

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