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Intervista: Fast Animals and Slow Kids

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fast animals and slow kids

di Elia Alovisi

“L’Alaska è uno spazio enorme senza punti di riferimento. Come quando spegni la luce di una stanza in cui non sei mai stato. Alaska è il nome di una ragazza. Ed è una ragazza gelida: “it’s so cold in Alaska”. Alaska è l’ultimo ed esaustivo passo armonico prima di buttare via tutto e reiniziare dalle basi, ripartire con qualche anno in più ed una certezza che ora come ora non c’è”. Così Aimone Romizi, frontman dei Fast Animals and Slow Kids, nella press release legata al nuovo disco del suo gruppo.

In un certo senso c’è sempre stata una sorta di distacco nei FASK – dirompenza e dubbio, ironia e serietà. “Forse convieni con me che la banalità di un testo d’amore è solo paragonabile a quella di un testo politico“, dice il testo di uno dei loro brani più famosi: una frase forte, in un contesto di musica italiana che, d’amore e di politica, ci vive, sopravvive, sguazza e si crogiola. Fedeli alle loro parole, il sociale non è mai entrato nel loro vocabolario, ed è il personale a regnare – ma un personale viscerale, di dichiarazioni dritte al punto. “Ti vorrei davvero felice” dice Con chi pensi di parlare. “Noi saremo amici, io te lo prometto” dice (l’avreste detto mai) Te lo prometto. Le basi della vita, che in realtà sono tutto – la felicità e l’amore (sia esso declinato in amicizia, famiglia, partner). La loro ricerca, una loro disamina. Abbiamo parlato di tutto questo con il gruppo tramite uno scambio di email.

Partiamo dalla musica: le prime due band che mi sono venute in mente ascoltando Alaska sono i Titus Andronicus e i Fucked Up. Per quanto siano odiosi i paragoni, vi ci ritrovate un minimo?

Assolutamente si. Sono due fra le band che abbiamo ascoltato di più in questi anni di tour. The Monitor [dei Titus Andronicus] è stato eletto disco del furgone 2012 (anche se era uscito nel 2010) e Queen of Hearts [dei Fucked Up] è stato utilizzato per mesi come pezzo fomento prima dell’inizio dei concerti.

Vi chiederei di ampliare un po’ il concetto di Alaska che avete già spiegato annunciando l’uscita del disco. “Una lettura passiva di uno dei diari di un archeologo ossessionato da una civiltà antica, criptica e apparentemente irraggiungibile…” Insomma, letto così è un po’ criptico.

Ecco, quello che volevamo dire con quella frase è che, come per un archeologo o un qualsiasi scienziato, la ricerca di qualcosa di lontano, criptico ed indecifrabile molto spesso si trasforma nella propria ragione di vita. Il vero ricercatore, il vero esploratore, si lancia con tutto sé stesso nel problema che ha di fronte e più ardua è la salita più forze consuma per trovare la soluzione. Allo stesso modo noi, nel nostro piccolo, abbiamo provato a scavare nel profondo dei nostri stupidi drammi quotidiani per trovare una risposta ed uscire da una condizione che evidentemente, ci rendeva semplicemente più soli.

Che significato ha il mare per voi, dato che gli avete dedicato una canzone il cui testo sa un po’ di rassegnazione e un po’ di addio?

In realtà non è un richiamo al mare in quanto tale, anche perché essendo Umbri siamo abituati alle colline e ci affidiamo alle morbide onde dei laghi. Nella canzone, il mare è soltanto un’immagine che dovrebbe incarnare il futuro, la vita che abbiamo di fronte. Il testo dice: “non ho paura del mare davanti, ma senza i miei denti ho solo rimorsi”. Volevamo comunicare che non è il futuro a spaventarci ma la sensazione di aver perso la forza di reagire agli errori del passato e quindi la capacità di affrontare il presente. In questo senso, si, possiamo parlare di rassegnazione.

Perché il padre di Come reagire al presente aveva ragione?

Perché tuo padre ha probabilmente ragione e basta, ha ragione perché continuiamo a non ascoltarlo e poi facciamo i suoi stessi errori.
Nella prima strofa della canzone diciamo che fondamentalmente nessuno può capire quello che stiamo passando, nessuno può aiutarci; alla fine del pezzo arriviamo invece ad ammettere a noi stessi che probabilmente il punto di vista di una persona molto vicina, come nostro padre, è più importante di quanto del nostro ego adolescenziale.

I vostri padri (e madri) come vedono i FASK? Ascoltano, apprezzano, sono indifferenti? Quanto hanno influenzato la vostra musica?

Questa è una domanda molto soggettiva, credo che ognuno di noi potrebbe presentare un suo personalissimo quadro familiare, soprattutto per quanto riguarda le influenze musicali. In linea generale, possiamo solo dire che sono orgogliosi di noi, anche se probabilmente avrebbero preferito qualunque altra vocazione più stabile e sensata che quella del fare il musicista in Italia.

“Quanto vorrei fuggire | Dal giudizio degli altri | E dalla mia insicurezza | Che mi lega ai palchi | Da quasi tredici anni”, dite in Calci in faccia. Insomma, “insicurezza” non è proprio la prima parola che viene in mente quando vi si guarda dal vivo. Potreste ampliare questo concetto? E dato che di live ne macinate tanti, come è cambiata la vostra percezione delle performance dal vivo con il passare di questi 13 anni?

L’insicurezza di cui si parla in quel testo è più profonda, rappresenta quella stupida voglia di autoaffermazione che ti porta a suonare e a rinunciare a molti aspetti della vita quotidiana solo per sentirti un po’ meglio con te stesso. Secondo noi, i sacrifici che si compiono per riuscire a far qualcosa in ambito musicale sono motivati da qualche mostro interiore che ci rende fragili ed insicuri fino alla prima nota che viene suonata su un palco. In quest’ottica, quindi, il concerto equivale alla sconfitta dell’insicurezza, al momento della resa dei conti, all’ultima battaglia in cui riversi tutta la rabbia e i pensieri che hai dentro per purificarti e sentirti meglio. Sarà forse per questo che con il passare degli anni abbiamo sempre la stessa voglia e la stessa carica in ogni singola data, fosse anche di fronte al promoter.

Una mia impressione personale sulla crescita del vostro sound: quando ascoltai Cavalli rimasi un po’ deluso da quanto la produzione vi avesse resi freddi e precisi, andando a perdere il grezzume di Questo è un cioccolatino. Poi, da Hýbris, avete ritrovato anche su disco l’immediatezza che avete dal vivo. Alaska conferma il tutto. Ora: riguardandovi indietro, come vedete il suono di Cavalli?

La verità è che di quel disco ormai riviviamo solo momenti divertenti e non pensiamo più al suono. Come dici te, la produzione ci aveva reso un po’ più freddi ma questo solo perché noi quattro non eravamo oggettivamente pronti a fare un passo del genere: ai tempi di Cavalli non sapevamo proprio suonare ed eravamo abituati a far tutto con la massima calma e distensione mentre lì eravamo in uno studio serio con tempi serratissimi e personaggi che non potevano nemmeno immaginare quanto noi FASK potessimo gestire male la situazione. C’è comunque da considerare che tutta questa strana storia è stata, di fatto, la molla che ci ha fatto scattare: Hýbris l’abbiamo voluto per forza registrare in una casa in riva al lago, con tecniche di registrazione molto più terra a terra ma con tutta la calma e le partite a Risiko di cui avevamo bisogno. Alaska è stato ancora peggio visto che la casa era la stessa ma ci siamo stati per un mese intero.

Restando sul tema, raccontatemi le sessioni di registrazione del disco. Mi sembrava casa di Capra [dei Gazebo Penguins]. Dalle foto che mettevate su Facebook sembrava quasi una comune.

No no, ma che casa di Capra! Ahahaha. Capra e i Gazebo sono solo venuti a farci un saluto visto che sono cari amici e suonavano in zona.
Quella dove stavamo si chiama casa vacanze “Il Macchione”, un posto bellissimo sulle rive del lago di Montepulciano ed in cui è presente una sala dall’acustica stranamente perfetta. Abbiamo vissuto per un mese lontano dalla città e dalla vita di ogni giorno ed è stato incredibile, un via vai di gente infinito: tra musicisti e non, fidanzate, vicini di casa e mille altre forme di vita (compresi dei gheppi che facevano il nido sul tetto di casa), era difficile trovare un momento per star soli. Non siamo mai stati in una comune, ma in effetti ce la immaginiamo come un’esperienza molto simile. Magari con meno fricchettonismo e più birra.

“Ma di fronte alla morte noi siamo di più” dice Grand Final. Da dove viene questo sentimento di forza, di abnegazione, di resistenza?

Dall’amicizia. In tutto il disastro di tristezza di questo disco l’unica cosa che siamo a riusciti a salvare è il forte legame che abbiamo con i nostri affetti e con coloro che ci dimostrano del bene. In fondo si fa musica anche perché si può lasciare qualcosa a coloro che ti sono stati vicini, sperando che loro faranno da tramite per i loro figli.