Live report: Woptime + Amitranos @ Border Club, Torino, 05/09/14

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di Domenico Mungo

C’era una volta la Torino Hard Core. Un maglio di piombo e acciaio che sventrava l’asfalto e il cemento di una città imprigionata nel proprio passato industriale e non ancora pronta al definivo balzo in avanti, mai avvenuto ipso facto, verso l’emancipazione dei diritti e dei desideri. Una Torino che si ritrovava negli squat, nelle case occupate, nei festival cresciuti fra le panchine senza occhi e le siringhe di plastica e pelle dei giardinetti di periferia, nei piccoli club fetidi e maleodoranti, nelle cantine umide infestate da ratti grandi come conigli, davanti i negozi di dischi e abbigliamento alternativi e le rampe di skate ricavate dai ridondanti marmi del Regio, sugli spalti di uno stadio che si chiamava Comunale e poi Delle Alpi. La retrovia della Torino radical chic, figlia delle periferie disossate dalla speculazione urbanistica e capitalistica, figlia degli operai piemontesi e dei figli della prima e seconda ondata di deportazione migratoria dal Meridione. La metà oscura del cielo sotto Torino, quella malvista da modaioli e benpensanti, quella che il pensiero dominante è una galera senza soffitto, soverchiata dal piombo di un cielo ingiusto e fraudolento. Quella Torino dove il concetto di Punk e HC si ritagliava genealogie discendenti dalle gesta epiche di Rough, Nerorgasmo e Negazione, 5° braccio, Declino, Indigesti, Peggio Punx, Blue Vomit, Nazifuckers, Contrazione, Franti, Kollettivo, Kina, Ifix Tcen Tcen per poi germinare in Church of Violence, Belli Così, Arturo, Frammenti, Crunch, Fluxus, Angeli, Mucopus, Cracsi Acidi, Plastination, Havoc, Aeroplani Cadono, Fuori Controllo, Arsenico, Cibo, Confusione, Cripple Bastards, S-Contro, Lama Tematica, Noinfo, Tsunami, Standing Strong, Redrum e miriadi di altri che hanno edificato una vera  e propria barricata di distorsioni e dissenso. Ognuno con la propria identità, con il proprio immaginario, con le parole più inconsuete e le sonorità devastanti. Agli albori degli anni Novanta, reduci dal riflusso reazionario degli anni 80 devoluti all’eroina e al disorientamento generale, come cantava disperato Piero Maccarino nell’anthemico incalzare di quell’inno generazionale che fu Torino è la mia Città. In piena crisi di excursus da Secolo Breve, in procinto di addentrarsi nell’alienazione postindustriale del Terzo millennio. Dischi che nascevano dalla coerenza di un pensiero antagonista nella pratica e nell’azione rivoluzionaria quotidiana, fatta di musica e parole che lasciavano segni nell’anima e sulla pelle cauterizzata dal dolore imperversante di un sistema patrigno e osceno, che veicolava al controllo sociale il residuo della sua carnalità assuefatta alla repressione. Dai meandri della Torino operaia, o di quel residuo maleodorante che ne rimaneva sulle carcasse di tute blu orbe di speranza. Pietre miliari di una invocazione al diritto di esistere avulsi dalle mercificazioni di un mercato musicale mainstream anche nei suoi contenuti apparentemente alternativi, schiavo altresì della logica imperante del sistema del capitale. L’autoproduzione, il lirismo intrinseco, la definizione di scenari politici, filosofici, letterari, umani. Dove l’anarchismo e la ribellione si declinavano su coordinate via via più intime e personali.

C’era una volta la Torino Hard Core, dicevamo. Un Maelstrom di contraddizioni e slogan, di entusiasmo e nichilismo. Di rabbia e poesia, di arte popolare e controcultura antisistemica. Una Torino che voleva riscrivere se stessa e urlare la propria esistenza. Valori genuini e spontanei come l’amicizia, il rispetto e, perché no, l’onore affiancavano sacrosante richieste di riscatto, elegie al nonsenso della vita, triturata dall’obbligo di avere prima ancora che di essere. E poi venne il giorno del disincanto. Del riflusso. Della noia. Della consuetudine. Degli aggiustamenti. Della reiterazione liturgica di schemi ormai liofilizzati ad uso e consumo dei fotografi e dei critici. Di una città che aveva smesso di urlare e barricarsi per lasciare spazio a fantomatiche opere di riassetto e riqualificazione. Urbanistica e umana. Una gentrificazione delle coscienze, ancor prima che dei kmq da lottizzare. Gli spazi di libertà che si riducono, occultati da colate di cemento e sgomberi coatti. Morti suicidi assassinati dalla logica del capitale e delle lobby. Circuiti che implodono. Gente alla deriva. Incapacità di riorganizzarsi. Sterili teatrini da riot for the media. Mani che si protendono verso il nulla. Ed è proprio in quella Torino che naufraga alla fine del XX Secolo, destinata a diventare metropoli sebbene con i cromosomi della provincia nel codice genetico, che si affacciano i Woptime. Creatura stupefacente e digrignante, nata dalla volontà del suo leader carismatico Saverio “Jena” Sgaramella, per devastare gli argini di ciò che rimaneva di quell’idea originale. La presunzione ingenua e benemerita di unire insieme tutti i figli della parte sbagliata: punk, skins, originals, OI!, metallari, indecisi da concerto all’ultimo momento, spacciatori, disoccupati, hooligans da stadio, puttane, groupies, tossici eroinomani, cocainomani, corrieri, writers, skaters, buttafuori, tassisti, scippatori, operai, ingegneri,bikers, psicopatici e via delinquendo in un unico esercito che marciava compatto pogando al suono di riff che sembravano provenire direttamente dalla acciaierie di NY City. Come se l’anthem If The Kids Are United ritornasse ad essere non solo più uno slogan da stadio, ma tornasse quella utopia ecumenica vagheggiata da Jimmy Pursey.

Testi in italiano, di una disarmante quanto sconvolgente crudezza. Nessuna indulgenza verso falsi moralismi o slogan politici di felice effetto sulle masse caprine. Realismo, storie della strada, scorrettezza politica, pericolosità sociale elevata. Neorealismo pasoliniano ma non quello imbottito degli elzeviri e dagli arabeschi intellettualoidi di molta sinistra antagonista o peggio ancora dei salotti radicali, bensì quello visto con l’occhio di chi esce dai bassifondi, dai tombini scoperchiati, dagli autobus affollati alle cinque di mattina di anime morte, dai delinquenti di periferia che si credono gangster e si ammazzano per due pietrine luccicanti. E si azzannano fra di loro come cani rabbiosi.

Furono album ignoranti e altrettanto ignoranti live e tour quelli che accompagnarono l’ascesa dei Woptime a vera e propria icona della scena HC italiana. Furono anni in cui uno squat o un club in cui passavano i Woptime si trasformava in un girone dantesco, affollato di torme irruente di giovani corpi destinati alla fusione apocalittica con la band che dal palco scaricava intere casse di munizioni dirompenti. Tre album ufficiali, più un paio di live, ne decretano il mito. Inferno sulla Terra (2000), Il Giorno del Giudizio (2001) e Mi Vida Loca (2004), intervallati dal pirotecnico Live@El Paso del 2002. Controversi e contraddittori, non sempre furono compresi dai benpensanti che stigmatizzavano gli atteggiamenti troppo rudi e sinceri di Saverio. Eppure proprio questo contribuì a consolidarne la rispettabilità. No Compromise si diceva una volta, per l’appunto…

Poi nel 2006 tutto si spegne. Quello che succede in molti i gruppi e sono solo cazzi loro, succede anche per i Woptime. Si sciolgono. Prendono altre vie. Ognuno con i propri progetti e con il proprio carico di vita sul groppone. E si arriva a questa torrida sera di fine estate. Sempre a Torino. Sempre in un quartiere di ringhiera. Lontano dai palchi mainstream dell’ex Motorcity italiana. Non è uno squat ad ospitare l’attesa reunion dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, ma un circolo Arci gestito da persone genuine, che hanno nel passato bazzicato tutti i luoghi e le strade e le vite di confine di questa città, che si dannano per far quadrare i conti e offrire un’alternativa, seppur minoritaria, alla movida stroboscopica e bulimica di cui è ammalata Torino. Il Border, zona San Donato, a ridosso della linea ferroviaria veloce che conduce da Porta Susa al resto del Mondo, nascosto fra le case della borgata risalenti alla fine dell’800. Un’enclave che racchiude in uno scrigno piccoli gioielli come quello di stasera. Le facce sono note, molti vecchi dell’old school, molti musicisti, tatuaggi, piercing, teste rasate, capelloni, ex punk, volti giovani ed emozionati dalla portata dell’evento, donne e ragazze a smentire l’apologia machista dell’HC: un crogiolo di umanità varia, un caleidoscopio di magliette, di mode,di attitudine, di volti sorridenti. Ma sopratutto quello che colpisce è il senso diffuso di amicizia, di fratellanza che scorre fra i convenuti, tautologico alle birre scolate già un’ora prima che iniziasse il set. Mani che si stringono, ricordi, abbracci, lacrime, sorrisi, aneddoti, foto di gruppo. L’essenza stessa di una reunion. Un’occasione per rivedersi, incontrarsi oltre il tempo che scorre inesorabile, fare la conta e vedere chi c’è ancora, chi ce l’ha fatta, chi non è scomparso del tutto e chi è ritornato. Il rito ha inizio. Si scende nell’antro del Border: una scala conduce al piano inferiore di un club che di primo acchito sembrerebbe un normalissimo pub con mansueti musicofili come clienti. Ma è nella saletta sottostante che si consuma il delirio. Apripista della serata sono i dirompenti Amitranos, anch’essi una band nata dalle ceneri di pregresse e credibilissime esperienze punkhc sabaude. Parliamo di Frammenti, Standing Strong, Tsunami, Spark, S-Contro. Mica pivellini. Il sabba ha inizio: è Gigio Bonizio dei C.O.V. a dare il là alle danze con una introduzione partenopea, dopodiché gli Amitranos sanno cosa dire e come fare. Un set irruento, debitore alle sonorità East Cost con influenze OI! inficiate dal marchio di fabbrica della TOHC e quella sana ignoranza meridionale (intesa come latitudine al sud del mondo, che sia la Calabria o l’America Latina) che scaturisce dal duo Beppe-Mauro, frontmen di grande carisma e personalità. Loki e Ricky tessono intrecci chitarristici ipercinetici che si legano alla sezione ritmica rutilante e quadrata di Igor alla batteria e Paolo al basso.  Alcune gemme incastonate in uno show che non lascia respiro: Tempo che Non Tornerà, Come in un film e Il Pit è Cosa Nostra cantata a squarciagola dai disadattati che compongono un moshpit già grondante sudore a catinelle,  iniettati da un tasso alcolemico già a livelli di guardia. Sudore, attitudine, entusiasmo, amicizia, fratellanza testimoniata anche dall’ospitata di Luca Barotto, frontman dei Kill Joy, promessa mantenuta della nuova ondata dell’hc torinese. Un live intenso, emozionante, aggressivo ma permeato di quella dose di ironia tipica del progetto Amitranos. Grandi, degni discendenti di una gloriosa scena e ottimi apripista per ciò che avverrà da lì a poco.

Il rito ha inizio. La sala è gremita di corpi ed emozioni. Dietro le manopole del mixer la professionalità di Tino Paratore è una garanzia. Il tasso di umidità nulla ha da invidiare alle più nauseabonde ed incandescenti discariche del Sud- Est Asiatico. Il peso dell’evento è palpabile. Basta un nonnulla e la scintilla è pronta ad innescare l’esplosione che deflagrerà incontrollabile. Saverio è infortunato alla gamba, per cause come dire “autobiografiche”, ma questo non ne contamina la leggendaria fisicità. La formazione è quella storica: Saverio alla gola, Paolino alla chitarra digrignante, Pelle dietro le pelli rutilanti e Ghera al basso incudine. La liturgia viene aperta dal coro ricalcato su quello della Curva Maratona, l’epico “La gente vuole sapere” e da lì in avanti non si faranno più prigionieri. Un’ora e mezza di puro delirio hardcore. Chi non li ha mai visti dal vivo non può comprenderne la brutalità dell’impatto sonoro e grezzamente scorretto. Inarrestabili, sgradevoli nella linearità e nella verità disarmante delle loro parole, vomitate con timbrica animalesca su scariche di ultrasonica violenza hardcore, stop&go da infarto, e mosh da codice penale. Gli Agnostic che dalla Grande Mela si trasferiscono nelle periferie grigie della città dormitorio del nord ovest padano e suonano con l’irruenza degli Hatebreed e dei Biohazard meno metallari e più core, sporcati di Slapshot e insanguinati di Cro Mags, oscuri e cattivi come i primordiali Typo-o-Negative. Cresciuti dentro El Paso Occupato destinati a incendiare cuori e schiene impazzite. Qui è tutto vero, nessun compromesso, nessuna inclinazione alle mode e alle pose fighette, al politicamente corretto quando nulla nella società intorno è corretto, ma al massimo corrotto! Qui sono tatuaggi, risse, birra a fiumi, mosh devastanti di testevuote e ossaspezzate, notti negli squat e domeniche sugli spalti, fratellanza pura e rispetto. Jena tritura anthem e parole di denuncia e ribellione, scorrazzando a bordo del suo taxi bianco sulle carcasse di una città in putrefazione, guardandosi attorno attonito e rabbioso. Prende nota e carica la pistola di Woptime che spara in faccia a tutti i nemici. L’odio è un sentimento genuino, quanto l’amore:  Il Giorno del Giudizio, Vendetta, Il Crimine Paga, la Fine del Mondo, Mi Vida Loca, Codice d’Onore, Noi Ci odiamo gemme cresciute nel cemento e sull’asfalto. Una leggenda che cresce con Nessun Rimorso, Inferno Sulla Terra, T.D.C. Giustizia per esplodere in Anthem di energia, calci, pugni, pogo e sputi. Fra le centinaia di corpi che si dimenano ecco apparire come un’epifania Papa Nico, percussioni di Africa Unite, membro originale dei Rough, che si unisce al girone dantesco che intona Torino è la mia Città, per un tributo dovuto e irrinunciabile a quello che è stato l’incipit di tutto. Si sprecano cori per Saverio e i Woptime ritrovati, come nel celebre romanzo di Uhlman, nonostante tutto e tutti. Fossero passati nove anni o novanta. Ci sono alcune cose che sono difficili da spiegare ai miscredenti, ai farisei, ai non adepti. Ci sono alcuni comportamenti che osservati dal di fuori potrebbero sembrare puerili, immaturi, irrazionali. Ma solo chi vive certe dinamiche, certi contesti in maniera genuina, pura, incosciente può comprenderli. Ed è ciò che si è verificato stanotte, in questo piccolo ma prezioso club nel cuore della vecchia Torino proletaria. Un miracolo laico, una coagulazione del sangue del santo, che non è però una reliquia, ma linfa ancora viva. Torbida all’apparire, ma pura nella sua essenza.

Credete al fesso che scrive: l’hardcore non è una categoria giovanile da vetrina, l’hardcore è la vita della strada. E solo Woptime e pochissimi altri in Italia possono esserne alfieri puri e senza macchia. Hardcore orgogliosamente Old School forgiato fra le fiamme dei bassifondi di un inferno chiamato Torino.

Redazione Rumore
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