Intervista: Helmet

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di Andrea Valentini

Era il 21 giugno del 1994 quando la Interscope pubblicava ufficialmente il terzo lavoro in studio degli Helmet, la band newyorkese di alt-metal/noise rock/post-hardcore reduce dal successo grande e inaspettato di Meantime (uscito nel 1992). Così nasceva Betty, un lavoro che, pur non raggiungendo lo stesso successo commerciale del precedente, è stato ampiamente lodato dalla critica come il disco più sperimentale e azzardato di Page Hamilton e compagni – e, in effetti, il sound stratificato, la ricerca sonora e le incursioni in territori musicali non consueti per il gruppo testimoniano una volontà di osare.

Ora, a due decenni di distanza, gli Helmet si sono imbarcati in un tour celebrativo, in cui risuoneranno tutto Betty dall’inizio alla fine. E saranno in Italia per quattro date a metà ottobre: il 16 al Circolo degli Artisti di Roma, il 17 al Bronson di Ravenna, il 18 alla RNR Arena di Romagnano Sesia (Novara) e il 19 al Fabrik di Cagliari. Per prepararci a questi live abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Page Hamilton, che ci ha raccontato qualche retroscena sul disco e le sensazioni che si provano nel fare questo time-warp verso il 1994.

 Sono passati 20 anni da Betty e gli Helmet nel frattempo hanno fatto molto altro. Come ci si sente a fare questo tuffo indietro nel tempo, nel 2014?

È una sensazione grandiosa; a questo punto della nostra carriera conosciamo e suoniamo un repertorio di più di 70 brani degli Helmet, ma non avevamo più risuonato Silver Hawaiian o Sam Hell live dal 1994. Ci stiamo proprio godendo questa faccenda.

Betty è un disco complesso, strutturato, intricato. Per non parlare delle accordature non standard che avete usato in diversi brani… come è riproporlo interamente su un palco?

Ci abbiamo impiegato un po’ di tempo a capire come suonare alcuni di questi brani dal vivo, ma adesso abbiamo le redini in mano, saldamente. Ad esempio uso un microfono a condensatore per ricreare lo stesso suono della voce di Sam Hell, Biscuits, Rollo e altre ancora. E poi ho dovuto sperimentare un po’ con effetti e pedaliere per trovare tutti i suoni giusti per la chitarra.

Non è uscita nessuna edizione celebrativa, magari rimasterizzata ed expanded, per il ventennale di Betty: è stata una scelta vostra? Cosa pensi di queste operazioni?

Purtroppo no, non lo abbiamo deciso noi. A scegliere è stata la nostra vecchia etichetta discografica, la Interscope. Il music business ha come obiettivo fare soldi e niente altro. E non c’è alcun interesse nei confronti degli Helmet, visto che siamo ancora una band altamente anticommerciale. Mi piacerebbe moltissimo ristampare Betty con delle bonus track; e abbiamo anche tante registrazioni live del tour del 1994/95. Tristemente, finché qualcuno non deciderà di investire del denaro nel nostro gruppo, non se ne può fare nulla: non siamo nelle condizioni economiche di pubblicare una cosa simile da soli.

La copertina del disco, dopo due decenni, ha ancora un suo fascino speciale. Cosa puoi raccontarci di quell’immagine?

Mentre componevo i pezzi di Betty tenevo una copia di Aladdin Sane di David Bowie sul mio comodino. Per qualche motivo che ora mi sfugge, mi si era materializzata e fissata in mente un’immagine vivida di una donna molto inglese, vicino a un lago, in un parco… era lì, sempre nella mia testa. A un certo punto ho visto queste illustrazioni di una signora americana, con un cesto di fiori, e sono impazzito perché erano ancora meglio di quelle che mi ero costruito. Credo fosse la moglie di un fotografo che viveva in Florida e lui l’ha usata come soggetto dei suoi scatti in diverse occasioni. Mi è subito piaciuta quella raccolta di immagini, dove si vedeva anche la tipica villetta dei sobborghi sullo sfondo. E così abbiamo fatto sviluppare l’idea della copertina basandoci su queste tematiche tipicamente appartenenti all’“Americana”.

In Betty avete incluso una versione dello standard jazz Beautiful Love? La definisci una cover? Cosa avevate in mente, quando avete deciso di suonarla?

In effetti non è propriamente una cover, abbiamo provato a uscire dal seminato, in quell’occasione. Ho guidato i miei compari di band in una specie di improvvisazione free jazz ed è stata dura, perché loro non erano abituati a misurarsi con cose simili.  Ho chiesto al tecnico di studio di lasciare andare il nastro e ho detto agli altri che stavamo solo provando i suoni, quindi serviva che ci dessero dentro in modo molto aggressivo e spingendo al massimo. Io amo il jazz e, di solito, la mattina la passo ascoltando o suonando degli standard jazz.  Questo pezzo, in particolare, è una pietra miliare: è stato scritto nel 1931 (mi pare).  Mi piaceva tanto la versione per piano di Bill Evans e mi intrigava il titolo davvero “anti-metal”: Beautiful Love. È per questo che ho scelto questo brano, piuttosto di un altro.

C’è, per caso, un pezzo di Betty che non ti piace più, per qualche motivo?

No, proprio no.

Presto vi vedremo live in Italia per quattro date in cui suonerete Betty interamente. Sai già, a parte i brani dell’album, che altri pezzi metterai in scaletta? Dobbiamo aspettarci qualche sorpresa?

Francamente non ho ancora la minima idea. Non ho ancora deciso nulla: a me piace cambiare la scaletta ogni sera, quindi chissà…

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