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Intervista: Luchè

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di Elia Alovisi

Il primo assaggio dal secondo disco solista di Luca Imprudente (aka Luchè) da Marianella, Napoli, metà dei defunti Co’Sang e ora parte di Roccia Music, è stato abbastanza controverso. Il pezzo si chiama Sporco napoletano e il suo ritornello fa, “Pieno d’oro, sotto la doccia Dio, ti prego, non farmi morire un povero cristo od uno sporco napoletano”. Ovviamente, la cosa ha causato critiche sul web per la sua cruda descrizione della napoletanità. Il punto è che, in generale, l’aggettivo “crudo” si sposa abbastanza bene alle liriche di Luchè: sia che si tratti di donne, di roba (sia in senso verghiano sia in senso di droga), di ricordi, di origini, Imprudente se ne esce con descrizioni il più dirette possibile, con un occhio al presente e uno al passato – che arriva sia dolce che amaro, nei ricordi d’infanzia e nella fiducia tradita, nei traguardi raggiunti e nei momenti difficili, il rap ad esorcizzare il male. Come cantava in Poesia cruda dei Co’Sang, con i Fuossera, “Cà abbasc pò ‘e sciem s’fann accirer ppe ‘e femmene / Je m’chir int ‘a music comm foss terapij / Ammor a primma vist je e ‘sta poesij”, cioè “Quaggiù poi gli stronzi si fanno uccidere per le femmine / Io mi chiudo nella musica come fosse terapia / Amore a prima vista io e questa poesia”. L2 contiene un po’ di tutto questo: ne abbiamo parlato a Milano, il giorno prima della controversa prima data romana del tour estivo di Roccia Music

Ho trovato sul tuo Instagram una foto di Ultraviolence di Lana del Rey, in cui dici che “ti accompagna sotto la pioggia”. Come mai?

“Lei è molto dark, sembra che arrivi pessimista, ma a me arriva anche molto ironica, ribelle. Quando dice “I fucked my way to the top“, ad esempio. Comunque il suo disco è molto dark, sembra sempre che ha passato un guaio, insomma, è pesante. Ma forse è quello quello che mi piace. Mi sento anche io spesso così, solo che non posso fare i miei dischi interamente così. Nel suo genere magari va bene ma, per quello che faccio, un disco intero tutto puntato su una delusione…”

Bé, è quello che ha fatto Kanye West con 808s & Heartbreak. Un disco su una rottura e sulla morte della madre.

“Esatto, quello è uno dei miei preferiti di Kanye. Ma nella fase in cui mi sento ora alterno momenti di grande grinta a momenti più down. Questo disco per me è un nuovo inizio. Dopo L1 ho avuto un periodo un po’ difficile, ero un po’ giù, un po’ depresso. In questo volevo far uscire un po’ più di rabbia, un po’ più di grinta”.

Se non è troppo personale, come mai ti sentivi così?

“Era un momento difficile perché nella mia vita personale ho attraversato un momento un po’ così – ci ricolleghiamo al discorso di prima – avevo problemi con una relazione che stava finendo. Allo stesso tempo il mio gruppo si scioglieva. Ho avuto questa batosta da affrontare da cui non è stato facile uscire. All’inizio la colpa è stata data a me. Tutti hanno creduto che fossi stato io perché sono stato poi il primo ad uscire con un album, come se fosse un complotto. Io comunque vivevo a New York, mi ero ritrasferito a Napoli per finire il disco, metto da parte tutte le mie relazioni personali per mettere la musica davanti, ho problemi in tutti i modi, mi dedico alla musica, il gruppo si scioglie non per colpa mia e mi ritrovo tutte le colpe addosso. Mi sono detto, “Scusa un attimo, non è che tutto questo tempo lo butto, mi faccio un album adesso, voglio dare qualcosa ai fan”. E quindi in tre mesi mi sono organizzato questo disco, ma ho dato l’impressione che invece avessi fatto tutto apposta per poi uscire da solista e prendermi tutto io. Quindi è stato un anno difficile, di grosse critiche”.

Passando alle liriche, Lieto fine racconta una storia di droga, sesso e violenza (“Una Peugeot rubata la nostra seconda casa, ci tagliavamo coca e spesso ci si scopava” / “Giaceva in un pozzo di sangue insieme alle altre / Una sul divano e l’altra con la testa dentro al water”). Quanto c’è di vero e quanto hai toccato con mano di ciò che canti? 

“Quella è una storia inventata, ovviamente, ma di storie così ne ho vissute tantissime. Quando eravamo ragazzi, dove sono cresciuto io, gli argomenti e le cose di cui si parlava tutti i giorni erano questi. I nostri amici questo facevano. Io mi limito, perché per me è normale parlare di determinate cose. Poi mi rendo conto che il 99% del pubblico italiano può rimanere affascinato da una storia del genere fin quando la rimane. Poi non si può relazionare veramente a tutto questo, mi rendo conto che si vivono determinate situazioni solo in determinate zone d’Italia di cui io facevo parte. E quindi mi rendo conto che non posso fare dei dischi che parlano di strada così. Quindi mi sono detto, “Mettiamola sotto forma di storia, così può diventare come un film o un libro, e affascinare chiunque”. Però c’è molto di veritiero”.

Per Sporco napoletano, invece, sei stato frainteso. Hai anche pubblicato un lungo stato su Facebook in cui spiegavi le ragioni del pezzo. Che è successo?

“Guarda, addirittura qualche napoletano che non mi conosce ha pensato che fossi un torinese, uno juventino che faceva una canzone contro Napoli. Cioè, pensa un po’ l’ignoranza. Poi ci sono quelli che dicevano che avrei dovuto farla in dialetto. Poi quelli che dicevano, “Come ti permetti di offendere la tua città, sei un venduto”… gente che veramente proprio il cervello non ce l’ha. Posso capire che è un pezzo difficile, posso capire che non tutti possono relazionarsi e capire il mio messaggio, ma si capisce che è una provocazione. Non è che io mi chiamo Sporco napoletano perché voglio offendere la mia terra. Non ha proprio senso, in un momento del genere poi. A parte che ho scritto il pezzo prima di tutte queste polemiche dello stadio. Ma in un momento simile, con Napoli nell’occhio del ciclone e tutti a criticarla, Sporco napoletano vuole fare uscire orgoglio da un’offesa. Alla fine dobbiamo reagire un attimo alla strumentalizzazione che Napoli subisce sempre. Ma era solamente questo, una provocazione. Se non trovi queste formule a volte nel rap, magari ti viene difficile cercare di lasciare un messaggio. Devi giocare un po’ con le parole. Mi sembrava una cosa chiara”.

In La transizione canti di “Cose inutili di cui non si vive senza” – perché ciò accade, secondo te?

“Ne siamo pieni. Io sono una persona molto onesta. Metto in musica il mio lato più intimo ma anche il mio lato più superfluo. E anche se cerco di dare un significato alle cose che faccio e alla mia vita, mi rendo conto che spesso siamo esseri umani, e quindi tante volte si parla di cose inutili di cui non si vive senza, come la soddisfazione di comprare un oggetto costoso, o di trovarsi a mangiare in un posto particolare. Insomma, non sono cose che determinano la tua vita, però tu le vuoi fare per darti l’illusione di vivere”.

È molto ambiguo, perché appunto dici “L’illusione di vivere”, non “vivere”.

“Sì, perché comunque non è che non vivi senza, ma a volte viverti la vita vuol dire anche farti il viaggio, o comprarti la macchina, o l’orologio. Sono cose che vivo anche io, perché sono un essere umano, ma mi rendo conto che sono cose inutili di cui però non viviamo senza, perché non abbiamo la forza di dire “veramente non ne ho bisogno”. Comunque ci cadiamo sempre”.

Nello stesso pezzo dici anche “Napoli ti fa credere che il successo non sia possibile”. Come mai?

“Napoli è una città difficilissima. è questo: o ti fa o ti distrugge. Nel senso che è una città dura e aggressiva, in cui i ragazzi e soprattutto le generazioni nuove sono nate già abituate al fatto che non avranno una speranza e non avranno un futuro. Sono proprio persone che ormai vivono perché c’è l’aria, e si respira, ma si è persa quella grinta o quella voglia di diventare, di esprimersi, di diventare qualcuno, di cercare di fare qualcosa della propria vita”.

Ed è sempre stato così?

“Già nei pezzi dei Co’Sang cantavamo la sensazione di sentirsi perso, sfiduciato, di perdere l’ispirazione. Guardavamo dalla finestra del nostro quartiere e quello che vedevamo era solo degrado, e quindi perdevamo la speranza di riuscire mai a vivere la vita nel modo in cui volevamo. Già quando eravamo piccoli c’era questa sensazione ma c’era ancora un po’ il calcio, i ragazzi credevano ancora nello sport. Adesso noto proprio che si è persa proprio la passione verso tutto. E quindi è una città molto difficile, ti può distruggere, abbattere e deprimere molto facilmente”.

Ghetto Memories sa invece proprio di pezzo-amarcord.

“È un pezzo molto personale. Ad esempio, quando canto “Andare a rubare le ciliegie nelle campagne e andare a rubarle la verginità nelle mutande”: sono cose che ho vissuto. Ricordo che eravamo piccoli, avevamo 14, 15 anni. Mentre costruivano la fermata della metropolitana di Marianella, che è il nostro quartiere, loro costruivamo in queste campagne, no? E mi ricordo che durante i lavori andavamo in queste campagne con la bicicletta e rubavamo un sacco di ciliegie. Poi, crescendo, rubare è diventato cercare di rubare la verginità da una donna. Gli obbiettivi erano diversi (ride). Sono tutte cose che ho vissuto davvero. Anche “Cadere e appendersi da un ramo spinato”: è l’immagine di un mio amico. C’erano un sacco di case abbandonate. Giravamo per il quartiere ed entravamo in parchi in cui non dovevamo entrare. Una volta, fuggendo da un parte, lui cadde da un muro e si appese a dei rami spinati, e si tagliò completamente. Ricordo tutte queste immagini… è tutto basato su miei ricordi”.

Hai scelto Achille Lauro come featuring perché avete avuto un’esperienza simile?

“Perché penso che lui venga da un background simile al mio, e poteva sicuramente aggiungere una strofa dello stesso mood. Secondo me il ritornellino che canta alla fine è molto azzeccato, ed è una delle canzoni che più mi piacciono”.

Hai pubblicato, un po’ di tempo fa, la copertina di It Was Written di Nas e definendolo “L’album che mi ha cambiato la vita”. Mi racconti il tuo rapporto con quel disco e con Nas? E come hai scoperto pian piano il rap americano?

“Ho scoperto il rap americano, ricordo, con delle cassette che comprai per caso in un mercato dell’usato a Napoli. Da lì iniziai a interessarmi. Per me fu Nas perché mi arrivò proprio quel disco. Mi ha cambiato perché i suoi testi sono favolosi, nel modo in cui descrive le immagini vedevo proprio la vita che vivevamo noi. Mi arrivò quello perché è l’anno in cui mi stavo affacciando all’hip-hop mentre Illmatic è uscito nel 1994, io avevo iniziato con le prime cose tra il 1995 e il 1996. Ci sono alcuni testi di It Was Written che sono molto descrittivi, ricordo quest’immagine che dice, “Sai che tagliare il sigaro è lasciare volare via il tabacco“… Le riuscivo a immaginare, respiravo la stessa aria che respiravo nelle case popolari in cui vivevamo noi”.

Perché, secondo te, il rap americano non ha lo stesso livello di successo che ha in altre parti d’Europa e del mondo?

“Perché la cultura è diversa. È lo stesso motivo per cui io sono ancora in una fase underground invece di essere mainstream. Io sono molto simile, in quello che faccio e per la mia personalità, al loro stile, al loro segmento. Il rap italiano sembra essere un genere a parte. Le produzioni sono molto più ironiche, tutto a ridere, a scherzare, chi fa il simpatico qua, chi fa il critico di là, chi fa musiche per le bambine. Un Kanye West ha un livello artistico talmente alto che ha bisogno di un minimo di cultura per il suo pubblico, per seguire la sua direzione. Qua purtroppo il ragazzino italiano è molto figlio di famiglia, molto coccolato, la scuola, i compiti. Mentre all’estero a vent’anni già vivono da soli, lavorano e studiano, crescono molto più in fretta. Qua rimangono ragazzini fino a un’età più avanzata. E lo stile di vita del ragazzino italiano non va pari passo con lo stile di vita d’oltreoceano, che poi viene rappresentato dagli artisti d’oltreoceano. Kendrick Lamar, a 25, 26 anni, già è un uomo, formato, con le palle, coi suoi pensieri, che fa un determinato tipo di musica che può piacere al diciottenne ma anche al quarantenne”.

Vivi a Londra da molti anni – come mai proprio quella città?

“Londra è stata per caso. Dovevo andare a New York – siamo nel 2002 – poi non riuscimmo a organizzare questo viaggio, allora mi dissero, “C’è il carnevale giamaicano a Londra, è bellissimo, d’estate, vattelo a vedere”. Ma nel mio immaginario Londra era rock. Me la immaginavo piena di biondi con le chitarre, tutta punk. Volevo stare tra i neri. Arrivai là, e mi sono trovato una città proprio urban, quasi total black. Dissi, “Ma che è?” Non me l’aspettavo. Il carnevale giamaicano mi lasciò scioccato. Mi sembrava di stare in America, in Europa. E quindi mi sembrò un buon compromesso, e ci sono rimasto. Dopo 12 anni non mi sono ancora stufato”.