Live Report: Augustines @ Gruenspan, Hamburg, 28/4/2014

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augustines

di Francesca Fiorini

Avevano fatto da supporto a The Maccabees ai Magazzini Generali. Io li intervistai all’epoca, e poi li vidi sul palco. Pochi gruppi ci mettono così tanta energia e convinzione nel cantare quello che hanno scritto. Quelli del “mi sei arrivato”, in gergo da reality. Avevano un “we are” avanti, ed erano al primo disco, quel rise ye sunken ship che non era per niente male e faceva vedere del potenziale. Poi hanno limato il nome, fatto un pledge per il disco, si sono messi in marcia per una ventina di giorni di tour promozionale che ha toccato UK, Francia, Spagna, Grecia, Svizzera, Germania e Olanda. Sì, non l’Italia. Ho quasi paura a chiedergli come mai non siano passati in Italia a presentare il loro secondo album, Augustines , anche perché da Newyorkesi di base sono piuttosto attratti dall’italian style (si passò il post intervista a parlare delle birre italiane, ricordo). So già in testa che la solita risposta neutra è “preferiamo concentrarci sui paesi del nordeuropa” e quindi sto zitta e con gli occhi ai voli lowcost.

Vederli ad Amburgo nasce proprio dalla fortunata combinazione che saltare su un volo di quella compagnia arancione mi costava un terzo di un treno per la svizzera e che l’alloggio mi costava un quarto del paese del cioccolato. E allora entro quando ancora c’è la luce al Gruenspan, locale all’interno somigliantissimo al Paradiso di Amsterdam, in zona St.Pauli. Locale schiacciato quindi tra porto, night club e stadio con una fila lunga ed ordinata già alle 18:30. Dentro però si suda come al Locomotiv di anni fa, vi assicuro. Va bene che c’era già la primavera ad Amburgo, ma tra me e il cantante degli Augustines c’è stata una discreta battaglia a chi grondasse più sudore. Lo so, non è una cosa bella.

Apre la serata un gruppo più che entusiasmante: gli inglesi New Desert Blues fanno una mezz’ora scarsa di canzoni dal disco appena uscito, ma chiudono quasi schierati in formazione suonando con quattro chitarre e producendo un suono così pieno per il genere Americana che è molto più cupo e pieno di riverberi. Sinceramente una band davvero interessante in un panorama che magari non presenta grandi novità sonore, che accompagnava però gli americani solo nelle date tedesche (culminate sabato con un sold out a Berlino nello storico Astra)

Quando arrivano gli Augustines sul palco filtra ancora luce dalla porta del backstage sul cortile dietro il locale. Ventilatore puntato su William McCarthy, Eric Sanderson prima nell’ombra alla tastiera e poi alla chitarra, un Rob Allen soffocato dalla batteria in fondo e l’aggiunta nelle date live di Al Hardiman, al violino, contrabbasso, tromba e qualcos’altro che probabilmente mi è sfuggito. Ma il caldo, le luci basse, la prima fila

Cosa hanno di particolare rispetto alle altre band gli Augustines? Probabilmente nulla. Se vi piace quel genere che passa dall’indie-folk fino a un punk stemperato tipico del New Jersey probabilmente vi sembreranno i fratelli minori di Mumford’s, The Gaslight Anthem e quel tocco di Boss che si fa sentire specie nelle performance live, molto fisiche. Loro ci mettono il cuore. Poi sì, ti salgono sulla balconata come fanno i Mumford and Sons e cantano a cappella. Poi si, si mettono in mezzo al pubblico e ricantano e suonano senza amplificazione come fanno i Dry the River. Ma in mezzo c’è un paio d’ore di suonato (e gag, si ride molto) quasi muscolare che coinvolge tanto da sembrare che il concerto è anche “tuo”. La setlist è molto bilanciata, 17 canzoni che saltano dal vecchio al nuovo disco. Si inizia quindi dalla profonda Headlong into the Abyss e si continua sempre dal primo disco con Chapel Song, il loro singolo più conosciuto. Ma quando salgono in balconata danno il via a nuovi pezzi come Walkabout (con il pubblico zittissimo per sentire l’esecuzione) e in mezzo alla sala continuano con una non amplificata Now you are free, con McCarthy che alla fine urla “Thanks guys, we are living the dream”. Per poi chiudere, dopo che li vedi risalire sul palco davanti a te arrampicandosi, con due intense East Los Angeles e New Drink for Old Drunk che gli fruttano cinque minuti di applausi ed inchini di solito visti solo all’Opera di amburghesi (e americani nella mia zona) realmente entusiasti di tutto. File al banchetto del merch e fuori al bus per aspettarli non mentono. Loro salutano i tedeschi dicendo che torneranno a breve nei loro festival. Io sarò sempre lì a cercare se il low cost mi aiuta o meno per continuare a seguirli.

Redazione Rumore
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