Live Report: Sun Kil Moon @ Biko, Milano, 6/4/2014

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di Elia Alovisi

“Non so perché ultimamente sono così ossessionato dagli accoltellamenti. Sarà perché guardo troppo True Detective. Avrò visto ogni puntata almeno quattro volte. Tranne l’ultima, che ha fatto schifo. Però l’ho riguardata per essere sicuro che facesse schifo”.

È arcigno quasi a livelli Paolo Villaggio, il buon Mark Kozelek. Giunto nel nostro paese per quattro date soliste in supporto del suo nuovo e sesto disco come Sun Kil Moon, Benji, Kozelek si sente pienamente in diritto di gestire il suo spazio, il suo pubblico e la sua carriera esattamente come vuole, senza preoccuparsi troppo delle reazioni di chi guarda, o scrive, o ascolta. E allora ciò che ne esce è uno spettacolo nello spettacolo – da un lato la terrificante bellezza dei rendimenti per chitarra classica delle sue canzoni, dall’altro l’ilarità e il leggero bruciore che lasciano i suoi commenti tra un pezzo e l’altro.

“È facile per voi, lì seduti a bere la vostra kool-aid e a mangiare il vostro cous cous. Non dovete mica stare sul palco”. Risate, qualche applauso, molti sorrisi. “Ieri ho suonato in una città di campagna del cazzo (fucking farmtown, dice), Ravenna… E qua a Milano avete delle ragazze, volevo complimentarmi con voi! Siete anche molto più giovani del mio pubblico medio. Qualche giorno fa ho suonato a Ghent per una platea di cinquantenni del cazzo”. Tutto questo, però, senza scadere nella rudezza eccessiva – se non magari quando si mette a sgridare qualcuno della prima fila per i continui sussurri: “Che senso ha mettersi in prima fila per sussurrare? Fate ciò che volete, ma fatelo in fondo al locale. Va bene?”

Parlavamo di accoltellamenti, prima – il commento su True Detective, infatti, arriva dopo un paio di consigli per il pubblico: “L’altra sera, a Londra, un tizio si è lamentato di quanto ci mettessi ad accordarmi. Mi fa, “Che stai accordando Mark, un’arpa?” Gli ho risposto, “Suoni la chitarra?” Mi fa, “no”. ” E io, “Stai zitto allora. O ti accoltello”. E ancora: “Se siete uomini e venite a chiedermi perché i miei dischi non sono ancora usciti su vinile, vi accoltello. Se siete ragazze, vi parlerò per un’ora”. Una variazione: “Se siete uomini e venite a chiedermi delle mie accordature, vi prenderò a calci in culo. Se siete ragazze, vi porterò a prendere uno yoghurt”. Esattamente ciò di cui Kozelek parla nella sua Sunshine in Chicago, da Among the Leaves, eseguita splendidamente:

La mia band suonava molto spesso qua negli anni 90,
Quando avevamo molte fan e cazzo, erano tutte carine.
Adesso non faccio che firmare poster per ragazzi in scarpe da tennis.

È davvero incredibile come Kozelek riesca a concentrare l’attenzione di tutte le persone che si trova di fronte e ad unire serio e faceto, canzone e spettacolo con grandissima, apparente, facilità. Dopo Dogs, ad esempio, che enumera tutte le ragazze con cui ha avuto a che fare a livello sessuale in un crescendo che va da “Katy Kerlan è stata il mio primo bacio” fino a “Quant’è bello perdere il controllo e quanto ti fa sentire bene venire, quando respiri come un cane che cerca di montare”, Kozelek si rivolge a una coppia a lato palco chiedendo alla ragazza se il fatto che avesse appena cantato una canzone che “parla di scopare, e di leccare figa” non l’avesse disturbata.

Le canzoni che riscontrano gli applausi più sonori sono quelle estratte da Benji, tanto a confermare quanto l’ultima fatica di Kozelek sia stata ben recepita – il primo estratto suonato è I Can’t Live Without My Mother’s Love, seguita da I Watched the Film the Song Remains the Same. Personalmente, i brividi sono scattati su Micheline – i suoi tre racconti a celebrare tre persone che non ci sono più, e la cui dipartita non ha avuto alcun senso. Micheline stessa, che da bambina con problemi mentali qual era andava a casa Kozelek per chiedere di poter fare un bagno con Mark, e se ne andava sorridendo “come se avesse appena ricevuto l’autografo di Paul McCartney” anche se respinta. E Brett, amico di Kozelek, a cui piaceva suonare la chitarra, che non aveva fatto mai male a nessuno e aveva una moglie e un figlio. Brett ucciso da un aneurisma causato dalla tensione che metteva sul tendine tra il suo medio e il suo indice quando suonava i barrè sulla chitarra, caduto “come un cervo colpito da un proiettile e agitato come un pesce tirato fuori dall’acqua”. E la nonna di Kozelek, diagnosticata a 62 anni con una malattia che non viene nominata, accompagnata dai suoi figli fino all’ultimo momento e Mark impaurito dal suo dolore, nascosto nella macchina della zia mentre aspettava che la visita alla nonna finisse. E il ricordo del loro primo incontro, a Los Angeles, quando Kozelek diventò amico di Marceau e Cyrus Hunt, due ragazzini che chissà oggi dove sono finiti, e assieme a loro vide Benji, il film che dà il titolo alla sua personale collina Lee Mastersiana.

Allo stesso modo insensato se n’è andata Carissa, sua cugina di secondo grado, uccisa da una bomboletta spray esplosa nella spazzatura lasciandosi dietro due figli. E se n’è andato Richard Ramirez, morto di cause naturali, terribile serial killer della cui scomparsa Kozelek viene a sapere da un SMS ricevuto dalla sua ragazza mentre si stava dirigendo in Ohio per il funerale di Carissa, e cantato in una splendida versione tirata e cantata a pieni polmoni di Richard Ramirez Died Today of Natural Causes.

Altro punto cardine della poetica di Kozelek è la messa in canzone del suo modus operandi – evidenziato benissimo in Ceiling Gazing, estratta dal suo album con Jimmy LaValle degli Album Leaf, in cui già la sua famiglia era il cardine attorno a cui ruotava la sua creatività. Una lettera di invito al matrimonio di un parente che nemmeno conosce, parole che lo fanno pensare alla sua famiglia fino a cadere sulla sorella, reduce da un divorzio e madre di due bambini di 4 e 7 anni – è a lei che va la speranza di Kozelek, che canta come voglia solo “vivere una lunga vita e guardarli crescere”.

E quant’è dura la vita in tour, a quanto dice Kozelek, lo sa solo lui. “Volevo ringraziare lo staff di questo posto, come si chiama… Biko, che ha cucinato del cibo buonissimo per me. Dopo di voi andrò nella cazzo di Scandinavia… non avranno i graffiti che avete voi, ma il loro cibo è proprio una merda”. Qua, il riferimento è By the Time That I Awoke: una carrellata di persone incontrate in tour e vecchie amanti, una canzone per darsi pacche sulle spalle quando senti “una corda invisible tirarti con sè” nel sonno incoerente tra un concerto e l’altro, magari con una chitarra rovinata da un volo su Korean Air.

Tra tutti i piccoli, immensi dettagli che Kozelek riversa sul pubblico nelle due ore che passa sul palco del Biko, il più sensato e toccante arriva all’improvviso: “Mi rendo conto di essere un vecchio lamentoso, era una cosa che faceva mio padre ed è come se ce l’avessi nel DNA, scusate. Sono comunque estremamente grato di fare questa cosa, e voglio ringraziarvi tutti per aver guidato fino a qua e scelto di pagare dei soldi per vedere questo vecchio cantare”. Si rende conto, quindi, Kozelek dei suoi difetti – e per questo li mette in mostra, sinceramente, come fa con tutti gli aspetti della sua vita che alimentano la sua poetica e le sue canzoni. A cuore aperto, e quindi estremamente sensibile e vulnerabile – ma con le palle, e la schiena che fa male, e un “vaffanculo” sulla bocca.

Mark Kozelek sarà ancora in Italia quest’estate, qua i dettagli. Qua sotto, per intero, il film che ha dato il nome al suo ultimo disco: Benji, del 1974.

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