Intervista: Lantern

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lantern

di Elia Alovisi

E fu così che un’intervista coi Lantern si rivelò una lezione di cinematografia. Perché Diavoleria, il loro primo album, ai film deve molto – a Woody Allen, a Werner Herzog, ai Goonies. E io, che di cinema non so una ceppa, mi sono quindi fatto una bellissima lista di “cose da guardare per interpretare questo disco”. Queste “cose” hanno una doppia natura: implicano ragionamenti filosofici come momenti di leggerezza, a testimonianza della giovane età dei Lantern – sia a livello musicale che lirico. In questo disco risuonano gli ascolti più disparati, figli di un gusto (giustamente) in evoluzione dal punk al math rock, dall’emo a qualsiasi cosa sia “post”; e, allo stesso modo, vieni a scoprire parlando con Sergio, Daniele e Sorbo che quei testi così “alti” e frammentari spesso hanno dietro ispirazioni semplici, come l’hobby di un padre, o la presenza del capannone di un’azienda vicino alla loro sala prove. Il loro discorso sa di filosofico e sociologico, universitario (“co-costruzione di senso mai compiuto”), ma è contemporaneamente acerbo e aperto a qualsiasi influsso esterno. In questa seconda incarnazione dei Lantern, dopo l’iniziale periodo di Noicomete, la parola d’ordine è malleabilità, nella sua accezione più positiva. E una buona dose di aspettative a cuor leggero, di quelle in cui non sai davvero come interpretare le recensioni, la reazione della gente ai concerti. In cui non sai che ne sarà della tua musica nei prossimi anni. Che per ora, che siamo giovani, “ad occhi aperti siamo ciechi / e gli insuccessi si intrecciano sotto le dita”.

Ma il gattino alla fine di Inferno a rotta di collo?

Sergio: “Allora, il gattino è mio. Inferno a rotta di collo è una specie di nome in codice di un protocollo per rapinare i musei, che è accennato in Ocean’s Twelve. Il che comprende l’addestramento di un gattino, che entra nel museo facendo un gran casino permettendo ai ladri di fare il colpo. Il gattino si chiama Herzog, come il regista”.

Comunque in cinematografia ci date davvero dentro. In un’intervista che avete dato a Rockit, avete spiegato come le citazioni che avete inserito tra le canzoni appartengano a Crimini e misfatti di Woody Allen. Che cosa significa per voi la sua opera e quel film in particolare?

Daniele: “Allen è uno dei registi preferiti di me e Sergio, citiamo costantemente i suoi film. In realtà quando abbiamo pensato di mettere delle clip in Diavoleria abbiamo pensato a diversi film. Volevamo metterne una anche da Harry a pezzi, in cui c’è un bel dialogo sull’esistere.
Sergio: “La parte in cui Allen finisce in carcere e vede un suo amico che è morto durante un viaggio che stava facendo per farsi onorare dalla sua ex università, e lui gli chiede, “Com’è da morto?”
Daniele: E questo gli risponde, “Non molto meglio, ma una cosa bella c’è. Non ti chiamano a fare il giurato”. Allen gli risponde, “Vorrei solo essere felice”. E questo, “Essere vivi è essere felici”. Anche questa doveva essere inserita ma alla fine abbiamo deciso di inserire solo tre dialoghi tratti da Crimini e misfatti. Sono tutti del Professor Levi”.
Sergio: “In realtà sono quattro, ce n’è uno intermedio che non abbiamo messo, il penultimo. È una figura che ci interessava, è questo professore di filosofia che elabora una sua teoria onnicomprensiva, olistica e positiva, essenzialmente. Come dice Allen, “un sì alla vita”.
Daniele: “Ma alla fine decide di suicidarsi lasciando un bigliettino con scritto, “Esco per la finestra” (ride). E ci sembrava abbastanza emblematico. Oltretutto, non sono davvero delle parti di dialogo del film, sono delle riprese del documentario che Allen cerca di girare all’interno del film. Quindi sono doppiamente mediate, è un doppio livello”.

Sempre in quell’intervista parlate di come i vostri testi vengono interpretati, soprattutto da recensori e simili. Spiegatemi un po’ perché la cosa vi fa strano, come vi approcciate ai vostri stessi testi e a quelli degli altri da ascoltatori.

Sorbo: “Io equivoco sempre di continuo, perché non leggo mai le parole prima di ascoltare un pezzo. I testi che canta Daniele li ho letti quando ho preso in mano il disco, ed equivocavo un sacco anche lì”.
Daniele: “Essenzialmente è così anche per chi li scrive”.
Sergio: “Continuiamo a equivocare i nostri stessi contenuti”.
Daniele: “Quindi è chiaro che fa strano vedere quanto le persone possano desumere dal significato dei nostri testi quando in realtà sono per noi stessi abbastanza indeterminati. In fondo è bello, perché qualunque lavoro, qualunque opera è sempre un incontro, un montaggio, una co-costruzione di senso mai compiuto. Noi diamo semplicemente degli spunti, poi è chiaro che l’ascoltatore fa il resto”.

Una cosa che noto è un bel gusto per la citazione. Qual è, per voi, il senso di citare qualcosa all’interno di una vostra canzone?

Sergio: “Secondo me quest’album parla di passato, quindi ci sono per forza dovuti finire degli elementi specifici di passato e di memoria. Un tale discorso non è mai completamente astratto. Non può esserlo perché fa riferimento a un processo, non a un sistema, per dirla in maniera linguistica. Sono cose successe veramente, e ci sono oggetti della modernità – una canzone, un film, un passaggio alla radio, dei ricordi… ad esempio, ne Il segreto delle ragazze dico “Le cornici, le lampade, il videoregistratore” perché sono le tre cose che mi ricordo di quella sera. Si cristallizzano degli elementi nella memoria. La citazione è un oggetto, qualcosa in cui si inciampa quando si cerca di riannodare il filo di un ricordo”.
Daniele: “Il discorso è più riagganciarsi a delle cose che sono successe, piuttosto che a cose che sono state scritte. Qualcosa di più contingente”.

Che cos’è un Mucchio d’ossa Copperpot?

Daniele: “Ho scritto quel testo quando avevo appena rivisto i Goonies – Chester Copperpot è il cacciatore d’oro di cui i Goonies scoprono il cadavere all’interno dei tunnel, schiacciato da una roccia. È un personaggio emblematico del fallimento dell’adulto. Dicono, “Lui non ce l’ha fatta, ma noi siamo qui. Questo è il nostro momento”. E infatti loro arrivano dove lui ha fallito”.

Invece che mi dite di Blek Macigno?

Sergio: “In realtà nessuno di noi ha mai letto Blek Macigno, è una cosa totalmente fuori dalla nostra generazione. Il fatto è che mio padre usava le radio CB quando era giovane, quelle cose con le antenne che i camionisti usano ancora adesso, tramite cui ci si parla su onde corte, medie, non so. Alla base c’è anche un bellissimo film che si chiama Radio Killer. Una specie di chat ante litteram, in cui ognuno aveva uno pseudonimo. E mio padre era Blek Macigno. È una cosa che mi è sempre rimasta impressa, e infatti la canzone parla di un incidente che ha avuto quand’era giovane”.

L’ultima di cui vi chiedo il senso è L’invincibile S50.

Sergio: “Si chiama così per un film che avevo visto, Invincible, di Herzog. È un film meraviglioso in cui Tim Roth fa l’illusionista durante il Terzo Reich. Aspira a diventare il ministro dell’occulto di Hitler, e c’è quest’altro ebreo molto grande e grosso, una sorta di Sigfrido – biondo, muscoloso, eccetera, che però è ebreo. E per un po’ incarna la virilità ariana in questi circoli occultisti frequentati da Goebbels, piuttosto che Eichmann. Era un film che guardavo spesso, e visto che era una canzone molto potente l’avevamo chiamata Invincibile. Poi abbiamo scoperto che L’invincibile S50 è un macchinario che veniva prodotto da un’azienda di Rimini, la SCM. È una specie di arnese multiuso per lavorare il legno, la plastica e il metallo. Noi proviamo vicino all’attuale fabbrica dell’SCM, e quindi l’abbiamo chiamata così”.

Parlatemi dei vostri inizi con gli strumenti.

Sorbo: “Io non c’entro niente con loro, suono da poco con loro e vengo da Pesaro, ho una storia diversa. Ho iniziato a suonare presto, ho fatto il primo concerto con il primo gruppo quando avevo dodici anni a una festa dell’unità. La solita cosa, il primo concerto locale, circondato da persone che più o meno conosci. Di lì vai avanti, insomma.
Sergio: “Mentre il discorso della tua infanzia con la chitarra? Quello era molto divertente”.
Sorbo: “Sì, prima di cominciare a suonare come si suona la chitarra la possedevo già, da circa sei anni, ma non sapevo che si doveva accordare, quindi… (ride) pensavo di saperla suonare, poi a un certo punto mi hanno spiegato che bisognava fare in un’altra maniera (ride)”.
Sergio: “Anche adesso non si accorda mai (ride)”.
Daniele: “A livello canoro, io non ho nessun inizio. Non penso di cantare tutt’ora”.
Sergio: “Sei un bifolco canoro (ride)”.
Daniele: “Adesso ho ancora un’altra band, gli Up There: The Clouds, e però è un po’ che non suoniamo. Penso che tra un po’ ricominceremo”.
Sergio: “Io avevo cominciato da pischello col basso, in una band ska-core… ho una certa età (ride). Poi ho suonato nei First True Primavera, una band di Rimini che forse adesso farà qualche altra cosa”.
Daniele: “Io prima di suonare il basso suonavo il flauto traverso, l’ho suonato due anni, mentre facevo le medie. Poi ho scoperto che l’unica band in cui c’era un flauto traverso erano i Jethro Tull, che mi facevano schifo, e allora ho preso un basso e ho iniziato a suonare i Rancid, e basta”.

Dato che attorno all’uscita di Diavoleria si è creata una sorta di hype, percepite una sorta di tensione intorno a quello che fate o per ora è ancora tutto come prima?

Daniele: “Siamo abbastanza spensierati, non crediamo in quasi niente, quindi. (ride)”
Sergio: “A essere sinceri, per quanto mi riguarda, un po’ sì. Semplicemente per il fatto che siano più persone a sentirci. Mi fa piacere, un po’ di tensione in più c’è, ma entro i limiti. Basta farci un cannone in più e va tutto bene”.

Ora che è passato qualche tempo, come guardate ai tempi di Noicomete?

Sergio: “Quando abbiamo scritto Noicomete non avevamo in mente una direzione, un fil rouge, com’è successo per Diavoleria. Sono dei pezzi che sono venuti fuori abbastanza spontanteamente, e sono stati scritti nel giro di due anni. Un periodo in cui non suonavamo tantissimo, e molto in sala prove. Prima di quelli avevamo solo un pezzo, in inglese, che poi non abbiamo più suonato. Sono molto… diversi, perché scritti in momenti completamente diversi. Tendiamo molto a separarli da Diavoleria”.
Daniele: “Anche i titoli di Noicomete – per dirti quanto era generico il nostro fare musica, non nel senso di banale ma di indifferenziato, senza linee di fuga – sono stati dati post-facto, con un espediente”.
Daniele: “Abbiamo cercato tra le band che ci piacevano e li abbiamo chiamati scegliendo alcuni dei loro nomi. Tranne un pezzo, che fa riferimento a Leningrad Cowboys Meet Moses, un film di un regista finlandese, Aki Kaurismäki. È molto divertente, lo consiglio a tutti”.

Diavoleria dei Lantern è disponibile in free download a questo indirizzo. Potete ascoltarlo in streaming qua sotto.

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