Intervista: Moonface

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moonface

di Elia Alovisi

Incontro Spencer Krug nella Elgar Room, una saletta all’ultimo piano della Royal Albert Hall – probabilmente il teatro più famoso di Londra. Al luogo in cui avrebbe suonato, Krug farà riferimento più volte durante il suo concerto di quella sera (“Quando mi hanno detto che avrei suonato alla Royal Albert Hall, tutti i miei amici mi hanno chiamato entusiasti. Non facevo che risponere, “Davvero credete che suonerò nella sala grande?”). Come se trovarsi in un posto simile fosse fuori dalla sua portata. E in effetti, camminare per quei corridoi vuoti, dare un’occhiata a quel salone dall’alto senza un minimo suono a riempire quello spazio immenso, è decisamente strano. Dopo una sigaretta appena fuori dall’edificio, su Kensington Gore, ci sediamo nel suo camerino. La sensazione di straniamento è devastante: legno scuro per terra e velluto alle pareti, mobilio tardo Ottocento, lo stesso silenzio ovattato. Krug versa due bicchieri di vino (“Vuoi anche due patatine? Io non le mangio. Ecco quello che ti danno da mangiare alla Royal Albert Hall – patatine e vino rosso”), ci sediamo e iniziamo a parlare. L’idea che dà è di estrema umiltà, sia quando parla della sua vita personale che della sua carriera da musicista.

Krug, nato nel 1977 in Canada, in British Columbia, è stato parte integrante di una sequela impressionante di band che, bene o male, hanno avuto un eco fortissimo nella scena indie rock. Dai suoi Wolf Parade, formati nel 2003 e usciti nel 2005 con quel capolavoro sbilenco che fu Apologies to the Queen Mary, al suo ruolo come secondo chitarrista nei Frog Eyes di Carey Mercer e nei Destroyer di Dan Bejar (poi sintetizzati in quel supergruppo che furono gli Swan Lake), passando per i suoi due solo-projects: i defunti Sunset Rubdown e i Moonface, che da band sono diventati un alter-ego pienamente solista. Il suo ultimo album, Julia With Blue Jeans On, è infatti composto solo per pianoforte e voce. Una serie di canzoni che parlano, principalmente, d’amore – anche in modo adorabilmente scontato, in alcuni casi, e a proposito è Krug stesso il suo critico più forte (quella sera, avrebbe introdotto November 2011 come “la canzone d’amore più smielata che possiate immaginare”). Umiltà e sincerità sono le parole fondamentali che vengono in mente prendendo la sua persona e le sue canzoni, a dipingere relazioni e identità in cui specchiarsi e da usare come sfogo, liberazione. 

Com’è stato crescere in una cittadina come Penticton?

Spencer Krug: “È stata una tipica infanzia da cittadina canadese. Penticton ha circa 40,000 abitanti. D’estate si riempie di turisti delle mie zone.  Su un lato della città c’è questo grosso lago chiamato Okanagan, e dall’altro ce n’è uno più piccolo, lo Skaha. “Penticton” significa “Terra tra le due acque”, in una qualche lingua locale che non ricordo. Crescendo, non mi rendevo conto di stare vivendo in una sorta di destinazione turistica. Ma adesso che ne sono lontano, mi rendo conto di quanto sia davvero bella la valle dell’Okanagan. È un posto splendido in cui crescere. Solo tantissima acqua in cui nuotare, frutteti, alberi, giri in macchina con gli amici, fumare erba per la prima volta sulla spiaggia. In realtà, fino a dieci anni sono cresciuto in un paesino ancora più piccolo fuori Penticton, Naramata. Era praticamente un paesino. Io, mia sorella e i miei amici potevamo andare ovunque,potevamo fare quello che volevamo. L’unica regola era tornare a casa ogni volta che sentivamo il suono di questa enorme campana che mia madre suonava quando era pronto”.

Prima di diventare un musicista, che lavori hai fatto?

SK: “Ho fatto il lavavetri per un certo periodo, ma un giorno sono caduto dal secondo piano di una casa. I miei nervi non reggevano più, e non sono più riuscito a farlo. Non mi sono fatto così tanto male, ma sarebbe potuta andare molto peggio. E passare tutto il giorno su una scala aveva iniziato a spaventarmi. Ho lavorato in un negozio di bagel, facevo la pasta e spazzavo per terra. Ho servito molti caffè e fatto il cameriere per molti tavoli. Ho incontrato Dan Boeckner, con cui poi ho fondato i Wolf Parade, in una cucina in cui lavoravamo entrambi a Victoria, British Columbia. Eravamo entrambi cuochi, passavamo il nostro tempo a preparare hamburger e patatine fritte parlando di come, un giorno, ci sarebbe piaciuto fare musica. E l’abbiamo fatto”.

Quali sono i tuoi ricordi più belli dei momenti passati con i Wolf Parade?

SK: “Ce ne sono molti. Probabilmente la maggior parte risale agli inizi, perché nei Wolf Parade nessuno sapeva nulla dell’industria musicale, da un punto di vista di business. E nessuno aveva idea di cosa significasse essere una band a tempo pieno – questo finché Dante DeCaro non si unì al gruppo. Non avevamo una cazzo di idea di quello che stava succedendo. Eravamo in quattro – no, inizialmente eravamo solo in tre. Io, Dan e Arlen dovemmo imparare molto velocemente, poi Hadji [Bakara, tastierista] entrò nella band e facemmo il nostro primo disco. Le cose esplosero immediatamente e iniziò questa strana, divertente, ripida curva d’apprendimento che affrontammo assieme. Era come una fratellanza, ci sentivamo come i quattro Hobbit pronti ad affrontare qualsiasi cosa, senza avere alcuna idea di come comportarci in questo strano mondo, e dovevamo quindi farci forza reciprocamente per andare avanti e imparare assieme”.

Come otteneste il vostro primo contratto?

SK: “Fin dall’inizio sapevamo che saremmo finiti su Sub Pop. Due anni prima che fondassimo i Wolf Parade, Dan suonava in questa band chiamata Atlas Strategic, e assieme erano andati in tour con i Modest Mouse. Era diventato amico di Isaac Brock, che al tempo lavorava come scout per la Sub Pop. Isaac voleva far firmare gli Atlas con l’etichetta, ma si sciolsero all’improvviso. Poi Dan si trasferì a Montreal, dove mi trovavo io. Siamo stati molto fortunati, dato che la Sub Pop era interessata a noi praticamente dall’inizio grazie a questa conoscenza di Dan. Facemmo un concerto a casa mia – vivevo in un loft e suonammo lì per pagare il mio affitto perché, ehm, non avevo soldi. Penso fosse anche il mio compleanno. Lo chiamammo “Sbenefit” (ride). L’idea era: devo pagare l’affitto, e i Wolf Parade facevano le prove in casa mia, quindi decidemmo di tenere quest’evento. E Isaac venne assieme al proprietario della Sub Pop e un paio di altre persone – stavano solo facendo il loro lavoro. È un momento davvero strano della mia vita, insomma: restare seduto in casa a suonare per Isaac Brock. A quel tempo non lo conoscevo personalmente.”

E invece che mi dici del tempo che hai passato a suonare con i Frog Eyes e i Destroyer?

SK: “Ho imparato molto da Carey [Mercer, leader dei Frog Eyes] e Dan [Bejar, leader dei Destroyer]. Quando penso a quella parte della mia vita, non posso che mettere assieme le due band. Appartengono alla stessa categoria perché il tour più grande che feci con i Frog Eyes fu quello in cui erano la band di Destroyer. Dan aveva appena fatto uscire Your Blues, un disco suonato interamente con strumenti MIDI – e quindi fece imparare tutti i pezzi ai Frog Eyes con strumenti veri e dinamiche rock, per divertimento. E in quelle registrazioni ci sono anch’io, dato che vivevo a Montreal mentre tutto questo stava succedendo. Quindi finii ad entrare nei Frog Eyes in quanto backing band di Destroyer, e quello fu il mio primo tour europeo. I miei ricordi più belli di quel periodo sono Dan e Carey a cantare per le loro rispettive band. Sono più anziani di me di tipo cinque anni, e hanno entrambi un talento immenso. Credono davvero tanto in ciò che fanno, ma in un modo strano. Praticamente, non gliene frega un cazzo di quello che la gente pensa di loro. È come se avessero trovato la loro voce, e avessero deciso di continuare ad usarla indipendentemente da qualsiasi altra cosa stia succedendo nella scena musicale che li circonda. Ho imparato molto da loro, soprattutto ad avere fiducia nelle proprie capacità e non avere paura di fare figuracce.”

Personalmente, senti di aver trovato la tua voce?

SK: “Non lo so. Forse ho raggiunto oggi il punto che loro avevano raggiunto allora. Continuano a stare un passo di fronte a me da quanto sono fighi, ecco. Sono miei amici, e gli voglio molto bene. Ho imparato tantissimo solo a guardare Carey cantare. Urlava davvero forte, ed era come se metà del pubblico non lo sopportasse. I Frog Eyes sono una band davvero stramba, ed è come se a volte si ponessero come antagonisti di fronte agli spettatori. Non in maniera odiosa o arrogante, ma solo per dire, “Questo è ciò che faccio, e questo è ciò in cui credo, e può piacervi o meno”. Penso sia un sentimento decisamente corretto da avere su un palco. E Carey faceva esattamente così, al cento per cento. Anche se c’era chi odiava quello che faceva, lui non ne veniva assolutamente toccato. Era davvero ammirevole per me. Destroyer, in un modo totalmente diverso, fa la stessa cosa. Comunque, se possiamo tornare indietro cinque minuti – prima è sembrato che parlassi male di Dante DeCaro, quando ho detto che imparavamo ogni cosa assieme finché lui non si unì al gruppo. Dante suonava negli Hot Hot Heat, quindi aveva già avuto una sorta di strana esposizione a stronzate-dell-industria-musicale-da-quasi-top-40, almeno a livello canadese. Quando iniziò a suonare con noi era tipo, “Lasciate che vi mostri un paio di cose, ragazzini” – anche se è il più giovane tra tutti noi. E in qualche modo abbiamo imparato qualcosa anche da lui”.

In che modo, per te, è diverso stare su un palco da solo rispetto a quando sei con una band?

SK: “È più spaventoso. I dieci minuti prima di salire sul palco sono decisamente più terrificanti da soli, praticamente perché è tutto sulle mie spalle. Cioè, quando sbaglio – e sbaglierò, vedrai stasera quando manderò a puttane qualcosa – non c’è nulla dietro cui nascondermi. Sto suonando un piano acustico e ci sto cantando sopra, quindi sbaglierò delle note, le sentirai. Non c’è alcuna distorsione, alcuna percussione, nessun basso. È solo un tizio qualunque. Questa consapevolezza è davvero terrificante, in un certo senso, prima di salire sul palco. Ma una volta che mi sento a mio agio, il che a volte mi porta via cinque minuti e altre mezz’ora, il conforto che provo è davvero puro e intoccabile. Quando sei con una band c’è sempre un elemento di caos. Una legge di Murphy che può sempre manifestarsi. Sul palco ci sono così tanti pezzi; i pedali della batteria si rompono, i portatili si bloccano, qualcuno è troppo ubriaco per ricordarsi la sua parte, Dante deve andare a pisciare a metà concerto – tutte le volte correva giù dal palco per andare in bagno (ride). È successo decine di volte, e dovevamo restare lì in piedi a improvvisare qualcosa. Da solo, tutto questo viene a mancare. Quindi mi sento decisamente liberato quando mi rendo conto di avere il pieno controllo di qualsiasi cosa nasca da questo palco, sia a livello musicale che non, qualsiasi cosa io dica. È più difficile? Certo che lo è. Un po’ più difficile. Ma in fondo mi basta bere un bicchiere di più prima di salire gli scalini (ride)”.

Raccontami dei tuoi inizi al pianoforte.

SK: “Avevo più o meno dodici anni. C’era questo pianoforte in casa, era stato un regalo di mia bisnonna alla mia famiglia. Quando avevo dieci anni iniziai a giocherellarci. Nessuno nella mia famiglia è un vero e proprio musicista. Quindi, a dodici anni, chiesi di iniziare a prendere lezioni. La cosa andò avanti per cinque anni, e poi il mio insegnante morì. Per quanto riguarda il piano classico, sono davvero terribile a suonare. A quindici anni andavo a lezione, ma dentro me pensavo, “Voglio suonare il basso”. Facevo skateboarding e ascoltavo i Fugazi. Quindi per un paio d’anni non ho dato tanto peso alle lezioni. Poi ci ho riprovato, ma la perdita del mio maestro mi ha fatto smettere”.

E cosa ti ha spinto a registrare un disco solo per piano e voce, in questo momento della tua vita?

SK: “Solo la realizzazione che stavo dimenticando interamente come suonare uno strumento. Ho sempre avuto un pianoforte sottomano durante i miei vent’anni, lo tenevo nella mia stanza. Ovviamente, quando mi trasferii a Montreal, nel Canada dell’ovest, non lo portai con me. Iniziai a unirmi a band classicamente “rock” come i Wolf Parade prima, e poi i Sunset Rubdown, e questo comporta tecnologia. Tastiere e sintetizzatori, distorsioni e… insomma. E suonare un vecchio sintetizzatore analogico non è per niente la stessa cosa. Poi, dopo essermi trasferito a Helsinki, ho capito che volevo re imparare a suonare il pianoforte. Almeno secondo le mie capacità”.

Vivi in Finlandia? Non lo sapevo.

SK: “Sì, stamattina mi sono svegliato ad Helsinki. I Siinai, con cui come Moonface ho registrato Heartbreaking Bravery, vivono lì. A Montreal, tutto è esploso più o meno allo stesso momento. I Wolf Parade, i Sunset Rubdown, il rapporto in cui ero. Quindi non so quanto sia stata una coincidenza o quanto c’entri io a livello personale. È dall’aprile 2012 che vivo in Finlandia. E adesso c’è una persona che amo che mi sta trattenendo lì. Ma ci sposteremo in Canada a maggio. Nel Canada dell’Ovest. Non vivo lì da quando avevo venticinque anni, e mi manca la costa ovest”.

Ho un paio di domande sui tuoi testi.

SK: “Non sono poi così bravo a parlare di testi, ma farò del mio meglio.”

Va bene. Perché, come dici nella titletrack, il nome di Julia è l’unico che merita di essere cantato?

SK: “Quella canzone parla di usare la musica per provare ad esprimere una sorta di apprezzamento per la bellezza, o l’amore. È difficile trovare le parole per esprimere qualcosa che ho già… insomma, la musica non rende giustizia al suo soggetto. O almeno, il livello di musica che io riesco a raggiungere. Il mio livello di scrittura non rende giustizia al soggetto di quella canzone. È una canzone d’amore per questa persona, ma anche per dire che scrivere una canzone d’amore per questa persona non sia abbastanza. È una pazzia provare a usare la mia merdosa, sbilenca poesia e le mie scarse capacità al piano per provare a raccontare questa persona. O una qualsiasi altra persona”.

È come se in November 2011 parlassi della stessa cosa: “Dai fuoco alla mia musica / In fondo, non era poi così bella / Diamo fuoco a questi computer / Che abbiamo dovuto usare fino ad oggi”.

SK: “Quella canzone parla di due persone che si ritrovano dopo essere rimaste lontane. E usiamo i nostri computer per comunicare, no? Personalmente, odio il mio portatile. Odio passarci tempo di fronte, non mi piace mandare email, odio Skype, preferirei così tanto essere una parte fisica del mondo piuttosto che avere questa stranissima lente che mi divide dal resto del mondo. Ma è così che comunichiamo oggi, non poi così diverso da una telefonata, penso. Ma se sei in una relazione a lunga distanza, arrivi ad odiare l’oggetto che usi per accedere all’altra persona. Quindi diamo fuoco a queste cazzo di cose che abbiamo dovuto usare… capisci? Quando esci da Skype è un momento tristissimo. È una stronzata provare a mantenere una relazione con qualcuno in quel modo, ma allo stesso tempo è fantastico. Voglio dire – Skype è incredibile, sai quello che voglio dire. Ma quello che vuoi è essere fisicamente con quella persona”.

Love the House You’re In è una canzone sull’accettazione di sé?

SK: “Sì, per la maggior parte. Accettare sé stessi e i propri difetti, e poi chiedere a qualcun altro perdono… è come una canzone per dire grazie a una persona che ha voglia di accettare, come hai fatto tu, il tuo essere difettoso. Capisci? Chiedergli di fare quella cosa e il loro dire sì. Quando una qualsiasi persona fa una cosa simile per chiunque altro è fantastico, quando accade una di quelle trasmissioni reciproche… più parliamo di testi più resterai deluso.”

E perché?

SK: “I testi possono essere interpretati in un sacco di modi diversi. È una cosa di cui sono pienamente al corrente quando ascolto musica, quando ascolto, che ne so… Leonard Cohen. Adoro molte sue canzoni, e so che il significato che do alle sue parole non è necessariamente quello che lui voleva dare, ma non me ne importa niente. E so che, se sto scrivendo un pezzo, tu non capirai quello che volevo dire. Dai un tuo significato alla canzone, ed è quella l’idea, la bellezza dello scrivere testi, del cantautorato. E della poesia, della letteratura, e di qualsiasi cosa, giusto? Penso sia per questo che odio parlare di testi. Non voglio distruggere i significati che le altre persone si sono creati, perché non sono affatto meno validi dei miei. Per te, ogni mia canzone è un’entità completamente diversa. L’hai trovata in un modo diverso, e l’hai ascoltata in un luogo fisico diverso dal mio. Ho già provato a dire quello che volevo dire, il significato che volevo passasse, e ho passato molto tempo a cercare di capire quali fossero le parole giuste. E poi ti viene chiesto di decostruire il tutto. Non voglio, perché l’ho già costruito (ride). Non fatemi buttare giù tutto. Ho già distillato le mie parole per ottenere le migliori che conosco. Non significa che siano belle, ma è il meglio che posso fare in questo momento, e non voglio distruggere nemmeno l’immagine che ho io dei miei pezzi. Non voglio tirare giù tutto, mattone dopo mattone, e mostrare in pubblico tutti i pezzi. Sarebbe come tirare fuori il proprio cazzo e le proprie palle. Voglio che tutto questo resti un’opera d’arte finita, e passare oltre”.

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