Intervista: Band of Horses

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di Elia Alovisi

In una recente recensione di Acoustic at the Ryman dei Band of Horses, Stephen Deusner di Pitchfork ha criticato aspramente la scelta del luogo di registrazione del loro nuovo album. Dopo aver passato metà del suo articolo a ripercorrere la storia del Ryman Auditorium (fondato nel 1892, assorto a simbolo della musica country, quasi chiuso, poi tornato in auge), Deusner definisce “populista” la scelta, in quanto “nel provare a trapassare la nota isolazione dell’indie rock [con la scelta di quel luogo] hanno perso le eccentricità che, un tempo, li definivano”. Il che, da un lato, è vero – i loro due ultimi album, Infinite Arms e Mirage Rock, hanno per qualche motivo interrotto la loro parabola ascendente iniziata con quella hit che fu ed è The Funeral. Ma, come fa notare Justin Gerber di Consequence of Sound, è difficile andare a vedere i Band of Horses dal vivo e “cercare di trovare un gruppo più felice di essere lì (ovunque quel “lì” sia)”, e conseguentemente non lasciarsi scorrere felicemente addosso il loro entusiasmo. Da un punto di vista prettamente musicale, Acoustic at the Ryman non aggiunge nulla alla carriera della band – anzi, se il folk rock e il country non sono nelle vostre corde, rischiate di annoiarvi seriamente ad ascoltare di fila le dieci canzoni che lo compongono. Ma ai Band of Horses va riconosciuta, appunto, la serenità che sembra permeare ognuna delle loro canzoni – tra coretti, pacatezza e assolini vari. E la stessa sensazione l’abbiamo avuta parlando con Ben Bridwell (voce, chitarra) e Ryan Monroe (tastiere) di dischi dal vivo, di palchi e del passare del tempo.

Perché avete scelto il Ryman come luogo in cui avreste registrato il vostro primo disco dal vivo?

Ben Bridwell: “In realtà il piano originale era pubblicare un album dal vivo che andasse a registrare le nostre classiche dinamiche rock. Abbiamo registrato praticamente tutti i concerti del tour, ma quello che ci sembrava più particolare e importante è stato il nostro concerto acustico al Ryman. Dopo esserci passati diverse volte ho sviluppato un certo attaccamento per quel luogo, mentre prima provavo solo molto rispetto per la sua importanza storica.

Sono sicuro che, se avessimo deciso preventivamente di registrare lì, sarebbe stato molto più stressante suonarci. Invece è stato tutto molto piacevole, e il pubblico era decisamente preso bene – per me, il punto chiave sono stati gli spettatori. Il loro entusiasmo ci ha aiutati a rilassarci e a divertirci ancora di più mentre suonavamo. Anche loro si meritano un riconoscimento per la buona riuscita del disco, È stata davvero una sorpresa che sia venuto tutto fuori così bene. Il fatto che le canzoni fossero uscite così bene ci ha quasi lasciati impreparati”.

Come fate a preparare una setlist? Soprattutto se sapete che verrà registrata per un live?

BB: “Provo sempre a far sì che la setlist scorra bene tra le canzoni più tirate, infilandoci qua e là i momenti più sentiti, o più tristi, senza lasciare che tirino troppo giù il morale di tutti. Grazie ad internet posso cercare le setlist dei concerti che abbiamo fatto in ogni città, e cerco sempre di cambiare le cose ogni volta. È una nuova sfida divertente ogni sera”.

Avete qualche “modello” di live album a cui guardate? Qualche disco che significa molto per voi?

Ryan Monroe: “Wow, ce ne sono così tanti, e tantissimi ne ho scoperti su YouTube. A farti una lista probabilmente uscirei di testa e ti annoierei. Quand’ero un ragazzo, ascoltavo religiosamente Kontsert di Billy Joel, registrato in Russia nel 1987. Era stato il primo concerto rock mai mandato in onda nella storia Sovietica. Suonò Back in the USSR, e il mio unico pensiero era, “ci vogliono proprio le palle”. Il pubblico sembrava fuori di sé dal primo momento all’ultimo. Nella setlist c’era anche The Times They Are a-Changin’ di Dylan, e solo pensare al luogo in cui la stava cantando mi fa venire i brividi. C’era anche un interprete che parlava al pubblico e traduceva ogni cosa. È un pezzo di storia fantastico. Mi ha aiutato, quand’ero piccolo, a capire che la musica è una lingua universale capace di avvicinare le persone per “dimenticare la vita per un po’”. Inoltre, devo citare The Last Waltz della Band, Live at Folsom Prison di Johnny Cash, At Fillmore West degli Allman Brothers… cavolo, adesso devo andare ad ascoltare un po’ di musica”.

Che cosa vi colpiva dei concerti a cui andavate da ragazzi? Ce n’è stato qualcuno particolarmente formativo, che vi è rimasto dentro?

BB: “Per me sono stati i Pavement, quand’ero ancora in High School. Me ne andai dalla città con la macchina di mia mamma senza averle chiesto il permesso, entrai al concerto con una carta d’identità falsa, finii a bere birra con gente più grande e vidi la mia band preferita. Anni dopo, mi sono trovato a lavorare come lavapiatti in un locale di Seattle. Mi sono reso conto di quanto fosse affascinante guardare come le band interagivano l’una con l’altra, e con le persone che lavoravano nei locali. Da questo, penso di aver imparato che è sempre fondamentale comportarsi correttamente e con rispetto, indipendentemente da quanto sia difficile il tour”.

Ci sono musicisti che ammirate particolarmente in formazione acustica, le cui canzoni significano molto per voi?

RM: “Mi piace davvero tanto il mood di Reckoning dei Grateful Dead, con le sue dinamiche rimbalzanti e le sue voci rauche. Jerry Garcia è una mia grande influenza, per quanto riguarda la chitarra acustica. Un altro esempio di bravura a cui guardo è David Rawlings. Per quanto riguarda il pianoforte, cerco sempre di stendere un tappeto fatto di colori raffinati su cui Ben possa muoversi cantando e per lasciare sempre una certa ariosità alla musica. Spero di aver imparato molto da Nicky Hopkins, Bill Evans, Chuck Leavell, Brian Sansbury, Erroll Garner, Bobby Whitlock, Billy Powell, e spero di avere almeno la metà del gusto di Norah Jones.

Che cosa significava suonare dal vivo per voi all’inizio, nelle vostre prime esperienze di fronte a un pubblico?

BB: “Non ho mai avuto una vera passione per uno strumento. Se proprio, la mia passione si vedeva nel mio ascoltare musica in ogni momento della giornata. Quando finalmente ho iniziato a suonare con una band, mi sono innamorato di quanto mi sentissi fuori dal mio elemento naturale. Non mi sono mai dovuto preoccupare di sentirmi in competizione con altri musicisti, non sono mai stato una minaccia per nessuno. Sono solo davvero felice di aver passato gli ultimi 15 anni a fare rumore con un gruppo”.

Come vi fa sentire il passare del tempo? Prendo il testo di Slow Cruel Hands of Time: “Le lente, crudele mani del tempo / Ti trasformano in lava bollente / Ti fanno tornare bambino”.

BB: “Come molte persone, ogni giorno mi sento sorpreso dal fatto che sia cresciuto. Quella canzone è nata da un viaggio che ho fatto per scrivere Mirage Rock, parla di quanto fu difficile riuscire a raggiungere il rifugio, ma anche della difficoltà che ho incontrato nello scrivere queste canzoni, con il passare del tempo attorno a me come collante”.

Ben, dopo aver suonato per anni con una band dai testi particolarmente “tristi” come i Carissa’s Wierd, come è stata per te la transizione da un gruppo all’altro da un punto di vista testuale?

BB: “In quella band ero praticamente uno spettatore, e mi ritengo fortunato. Non ho dovuto scrivere mai né musica né parole, ma ho imparato tantissimo da loro con il passare degli anni. Quando ho iniziato a scrivere i miei pezzi con gli Horses la loro influenza non se n’è andata, ma ho sempre provato a mostrare un lato diverso della storia. O almeno di inserire un senso di speranza anche nei temi più disperati”.

Perché pensate che la maggior parte dei cantautori e delle band che iniziano a suonare in acustico alla fine si mettano a sperimentare con strumentazioni sempre più complesse? Vedi Justin Vernon, Sam Beam, Devendra Banhart. 

RM: “Gli artisti esplorano, tornano a casa, poi tornano ad esplorare ancora un po’ e ripetono il tutto fino a raggiungere la temperatura ambiente.

Potete ascoltare Acoustic at The Ryman qua sotto.

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