Intervista: Albedo

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di Nicholas David Altea

Gli Albedo sono stati sicuramente una delle più belle sorprese del 2013, con il loro concept album, Lezioni di Anatomia (via V4V / Inconsapevole records). Concept è una parola un po’ abusata in effetti, ma da qui, non si scappa, perché il disco – terzo con l’attuale formazione – è composto da nove tracce, ognuna dedicata ad una parte del corpo che funge da metafora nei testi intimi ed esistenziali della band. Il quartetto milanese composto da: Raniero Federico Neri, Gabriele Sainaghi, Ruggiero Murray e Luca Padalino, si distingue per la forte inclinazione pop delle melodie, qualche trama post-rock dilatata, unita agli arrangiamenti minuziosi di ogni pezzo. Nell’attesa della loro esibizione al Mi Ami Ancora 2014 abbiamo fatto due parole con Raniero, voce e chitarra del gruppo.

albedo disco

Sono tanti anni che suonate, però solo con quest’ultimo disco siete riusciti a farvi conoscere da un pubblico più vasto. C’è un motivo particolare, al di là della qualità dell’ultimo lavoro?

“Secondo me, la risposta più onesta che ti posso dare è che siamo maturati tardi. Venivamo da contesti e generi musicali diversi; come Albedo siamo nati circa 5-6 anni fa e quindi forse abbiamo lavorato molto su noi stessi e soprattutto, su quello che ci piaceva veramente. Fortunatamente abbiamo sempre scritto tanto, mentre dall’uscita del disco ad ora, è il momento in cui abbiamo prodotto meno, vuoi anche per impegni nostri vari: famiglia, bambini e asili.”

Comunque non siete proprio dei giovincelli?

“No, no, puoi dirlo che non siamo giovani! È pazzesco che all’estero vedi gente di 20 anni che arriva a dei risultati notevoli, ma più che i risultati che raggiungono, è proprio la qualità delle loro produzioni che è spaventosa. Hanno anche la fortuna di aver un pubblico che qui in Italia non c’è o che comunque è piccolo. Qui si rimane legati ad una certa tradizione, che ci può anche stare, perché tutta la scena underground (Afterhours e dintorni) che sono comunque anche tra i miei gruppi preferiti; però la difficoltà sta nel cercare di far sentire qualcosa di nuovo alla gente. Ce ne sono tanti di gruppi validi che arrivano sempre fino ad un certo punto, poi non riescono mai a fare quel qualcosina in più, per poter suonare su palchi più grossi e magari poterci vivere di musica.”

Che poi, se si raggiunge un palco un po’ più grosso qualcuno poi storce il naso.

“Questa è una cosa tipicamente italiana che mi fa incazzare tantissimo e anche adesso, vedo spesso che si prende per il culo facilmente gruppi come il Teatro degli Orrori che sono arrivati ad un certo tipo di percorso. Siccome hanno avuto un certo tipo di riscontro, sono ormai etichettati come finiti e questo dispiace.”

Beh, poi ci sono anche band che arrivano ad un certo punto e non reggono l’impatto con un pubblico più ampio.

“È vero, non riescono a fare il salto e alcuni non vogliono nemmeno farlo. Anche avere un approccio troppo chiuso ti esclude da un certo pubblico che esiste che magari sarebbe interessato, ma non riesce ad avvicinarsi a quello che fai. Noi tutti, nel bene o nel male, facciamo cose di nicchia che magari hanno una certa difficoltà ad essere apprezzate. Le radio o altri canali che dovrebbero aiutare la promozione un po’ mancano di questo, c’è un buco enorme. Loro sono una delle cause principali per cui la nicchia ad oggi, rimane una nicchia e da lì non ci si schioda. Scambiando poi pareri con altre band, si campa a tirare a fine mese quando hai un disco in uscita e un tour, poi quando hai finito no. Questo dispiace, nessuno si aspetta la villa con la piscina e le dieci ragazze di playboy. Ci sono esempi che partendo da zero e con una solida promozione però, sono riusciti a ricavarsi un loro pubblico, perché le possibilità ci sono ma la gente non ti conosce.”

Poi c’è molta gente che rosica, appena si fa un po’ di più, si raggiunge un pubblico maggiore partono le critiche.

“C’è troppa gente che rosica, tutti suonano, tutti fanno i dj e tutti scrivono di musica. Stessa cosa come quando gioca il Milan, son tutti allenatori.“

Voi non fate tantissime date, vero?

“Noi siamo un caso a parte, abbiamo deciso di continuare a lavorare anche per una questione anagrafica e fare musica così: perché ci rende felici fatta in questo modo. L’idea di vivere di musica tirando sempre a campare con una famiglia da mantenere, non era una cosa che ci allettasse molto. Poi sono scelte di vita, conosco band che prendono il furgone, non gliene frega niente e vanno ovunque. Li stimo tantissimo per questo, ognuno poi fa le sue scelte, obbligate o meno. La nostra è consapevole e tutto quello che ci arriva in più ci fa contenti. Per altri capisco bene sia un problemone una cosa del genere.”

La mania del concept l’avete sempre avuta, anche nei precedenti dischi si vede e si sente. Lezioni di Anantomia è composta da canzoni con un titolo che sono ognuna una parte del corpo. Quest’ultimo è il vostro concept più riuscito. Parlaci un po’ di come è nato e come si è sviluppato.

“Sì, ci piacciono molto. Beh questo è il più pensato sicuramente, è nato da zero; chiamalo progetto, ecco. Siamo partiti dai pezzi, il primo è stato Gambe, poi siamo risaliti fino a Cuore e abbiamo deciso di farci tutto il disco. Il problema del concept è che adesso stiamo cercando di pensare a qualcos’altro di nuovo ma non è mai facile ragionare in quest’ottica.”

Magari il prossimo potrà non essere un concept album?

“Eh ma ci piace continuare su questo filone, come le enciclopedie! In realtà lavorare su una cosa del genere ti da già un metodo, soprattutto quando hai poco tempo per provare. Può sembrare tutto molto triste e preconfezionato ma poi alla fine tutti i testi parlano bene o male di sentimenti e sono tutti; molto sinceri e declinati a parti del corpo. Probabilmente se si ascoltasse il disco non in quel contesto, non sembrerebbero così interessanti le canzoni.”

Come reagisce il pubblico ai vostri concerti? Riesce a entrare nell’ottica di quello che ha sentito su disco in un ambito live?

“Reagisce bene, ma quando forse viene educato, capisce il lavoro e si è ascoltato tutto il disco, da Cuore a Gambe; allora lì il pubblico ha una percezione di quello che stai facendo e di come lo stai facendo. Ovviamente la stragrande maggioranza delle volte e non ci conoscono ed è comunque un buon motivo per andarci a suonare, ma reagiscono anche lì bene. Noi forse non siamo proprio un gruppo da live ma non per qualità, non abbiamo la botta di altre band perché forse siamo più intimi.”

In fin dei conti poi questo disco ha delle strutture post-rock ma affrontate con una intensa vena melodica.

“Direi che è così anche se poi non abbiamo quell’attitudine tipica, tipo dei Massimo Volume o dei Mogwai. Io mi sento molto più vicino al pop, un po’ per gli ascolti: dai classici Afterhours e poi insomma, il mio primo concerto è stato quello dei Nirvana qui a Milano, un po’ ti influenzano queste cose. All’interno della band ascoltiamo molte cose diverse però, quando ci ascoltiamo un disco, arriviamo ad avere uno stesso parere. Apprezzo molto anche l’elettronica, con forte odio del mio batterista.”

Questa tua passione si sente ad esempio nel brano Pance infatti.

“Sì, mi sarebbe piaciuto utilizzarne un po’ di più di elettronica e vorrei utilizzarne di più in futuro, ma sono consapevole che suoniamo in un gruppo con i quattro strumenti classici e andrei snaturare troppo la nostra identità. Poi bisogna anche saperla fare elettronica e noi non siamo capaci; siamo sicuramente più vicini al termine pop. In Italia, in un certo ambiente dire pop è dire merda, ma non è così perché si dà un’accezione sbagliata del termine. Il nostro obiettivo, quando scriviamo un pezzo, è arrivare direttamente al sodo in maniera semplice. Ora forse, si cerca a tutti costi l’originalità a discapito della canzone vera e propria.”

La questione live in Italia come la vedi?

“Siamo un po’ tutti sulla stessa barca, noi abbiamo suonato un po’ di più nel 2012, prima che uscisse questo disco e abbiamo fatto delle date talmente brutte che ci siamo detti che andare in giro così non aveva senso. Il problema è che a volte, sei talmente fuori contesto e pensi che forse sia meglio cercare di farne poche ma di qualità, continuando a fare dischi migliori, per poter arrivare in posti dove le strutture, non siano fighe o chissà cosa, ma perlomeno decenti. Nessuno vuole 600 birre in camerino o quali assurde pretese, ma che ci siano due spie funzionanti e non suonare di fronte a gente che mangia in un pub e che non gliene può fregare niente di te. È importante anche andare a suonare dove il promoter che ti ha contattato, ti conosca e che coinvolga gente alla serata, perché pensa che tu gruppo, abbia qualcosa di valido da dire.”

C’è qualche artista che vi piace particolarmente con cui vorreste collaborare?

“Ce ne sono un sacco: Paolo Benvegnù mi piace tantissimo, ma anche lo stesso Capovilla oppure Afterhours, Verdena. Non sono uno di quelli che ha preconcetti, come detto all’inizio. Ecco, ci piacerebbe avere un produttore, uno che ci indirizzi e ci dica anche che qualcosa fa schifo che invece a noi piace, per intenderci. Che ne so, anche un Giorgio Canali come produttore!”

Qui sotto potete ascoltare il disco o scaricarlo gratuitamente qui.

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