Editoriale 264: Una carezza in un pugno?

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E così poco prima di Natale è affiorata la notizia che una sera d’autunno, a Bologna, dentro un locale insospettabile come l’Estragon, alla fine di un concerto “alto” come quello dei Massimo Volume, è scoppiata una rissa. Brutta brutta. Ormai l’avete letto ovunque, la dinamica la conoscerete a memoria, anche se già offuscata da lenticchie, tempo e (disco)panettone.

Dario Parisini, componente della storica band bolognese Disciplinatha, ha aggredito Max Collini, voce degli Offlaga DiscoPax. Era stato citato in una canzone del gruppo reggiano, mezzo decennio fa; e tanto deve essergli bastato per giustificare l’assalto, per sentirsi offeso, sbertucciato. Un barbarico regolamento di conti (in) pubblico, quindi. In un lungo post su internet Max ha ricostruito con pazienza la vicenda. Non si conoscevano, non si erano mai incontrati, niente di niente, pum. Pazzesco.

Che anno è stato questo, e che anno sarà, da queste parti? Al netto dei buoni propositi, della dieta da fare, del lavoro da trovare, dei libri da leggere, degli amici da frequentare. Che anno è stato, quello appena conclusosi? Non bello, nel nostro mondo. Proprio no. Un mensile come “Jam” ha cessato le pubblicazioni al crepuscolo del 2013. E purtroppo la stessa cosa è capitata a “XL” de “La Repubblica”, a cui non è stato sufficiente essere organico a una corazzata editoriale. Gli altri, chi più chi meno, tengono, faticano, arrancano, talvolta respirano. In questi casi c’è sempre qualcuno che dice – un po’ imitando l’imitazione dell’Onorevole Antonio Razzi inscenata da Maurizio Crozza – massì, fottitene, meglio così, c’è più spazio per te. Chi conosce anche solo un po’ le dinamiche editoriali sa che la realtà è più articolata di così. E che la malattia di uno non guarisce il suo vicino e/o eventuale competitor. Non esiste la logica del travaso, per la stampa.

I giornali che chiudono sono altrettante voci ufficiali in meno che possono fare luce su scene, artisti, dischi, movimenti, storie. Di fronte alla chiusura di queste testate nei mesi passati, scorrendo velocemente la rete, ci si è imbattuti in commenti sprezzanti, di una ferocia tale che è dura definirli opinioni. Cazzotti a colpi di mouse e click. Maddai, fanno cagare, che muoiano, riviste di merda, solo roba mainstream. Molti colleghi che hanno perso o hanno visto ridimensionarsi il proprio lavoro sono persone di stimata competenza e professionalità. Gente che si è adeguata, saltando, rimbalzando; che ha imparato l’arte del multitasking negli anni. Perché qualcuno a monte trova spiritoso o utile ballare la dubstep sul cadavere o sulle mutilazioni di queste persone o testate? È forse in dubbio che l’educazione culturale e musicale di un paese passi anche attraverso la pluralità delle sue voci? Attraverso la presenza di lingue diverse, disposte a dare fiato a dischi di cui diversamente nessuno parlerebbe?

Dice: ah, ma io me ne sbatto, tanto leggo internet gratis (sinonimo di Pitchfork condiviso su Facebook) e “Mojo”, al limite “Uncut”. I giornali italiani fanno cagare. E si ricomincia. Ma perché non veniamo urtati dal fatto che i pur intoccabili periodici inglesi musicali sono pieni, da anni, di pagine pubblicitarie per erotomani (a essere eufemistici), mentre il minimo segnale di debolezza qui viene celebrato a suon di status spernacchianti? Mi viene da chiedere consiglio e risposte ai miei consulenti, in questi casi. “Di fronte a queste violente intransigenze, sono diventato buono per sfinimento”, mi dice Andrea Prevignano. “Quelli che sputano sulle riviste sono gli stessi che pagherebbero di tasca propria per scriverci su”, chiosa Andrea Pomini. Io non so se sia vero oppure no. So però bene che quando capita di parlare con degli interlocutori (uffici stampa, agenzie, discografiche, inserzionisti, artisti) tutti dicono, ancora: ma a noi interessa la carta, mica la rete. È sulla carta che si esiste, il web è un giocattolo. Ma come: ma non eravate tutti su internet e con “Mojo” nello zainetto? Si disprezza, ma in fondo si compra. Si sputa addosso schifati, per poi rigirarsi sempre verso lo stesso paesaggio e obiettivo. Ha scritto Giampaolo Visetti nel suo volume Ex Italia: “Un Paese stressato da mille tensioni locali diventa – resta – un ‘paesino’. E rischia di soccombere”.
Tutto è esasperato, nel paese (paesino) e nel nostro mondo più che mai, dove ancora si confonde l’attitudine punk con la maleducazione; senza apparente via d’uscita. Dove le risorse non esistono, ma bisogna farsi e dimostrarsi sempre più scaltri e intelligenti, farsi la guerra e brindare alle difficoltà altrui, io sì che saprei il modo. Facendo così il gioco di quella parte d’industria dello spettacolo che invece le risorse le ha (la TV, per dire) e che è furba abbastanza da saperle gestire senza litigi da riunione di condominio. Senza cazzotti. Verso il povero Collini, oggi, o Andrea Scanzi ieri e chissà chi domani. Avremmo sì da imparare dall’understatement britannico e americano.

Che 2013 è stato, dicevamo? Una delle più formidabili canzoni dell’anno appena trascorso è stata anche uno smash hit di proporzioni gigantesche. Royals, della post adolescente neozelandese Lorde. Un brano fatto di soli beat e voci. Divenuto un successo planetario: da non credersi. Naturalmente avendo incontrato il successo non è degno di essere considerato, neanche se a livello produttivo siamo di fronte a un’opera d’arte. E naturalmente, aldilà delle gossippate di facciata del web, nessuno qui si è preso la briga di smontare il testo del brano e analizzarlo. Per capire, tipo, che si tratta di una letterale presa in giro del mondo tutto soldi e bellezza (a sua volta iperreale) narrato da Lana Del Rey (in National Anthem, soprattutto). La quale, che si sappia, non ha preso a pugni Lorde per la citazione ironica.

Paese che vai. E buon anno a tutti, ma per davvero. Speriamo di essere qui a raccontarci com’è andato il 2014, fra 12 mesi.

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