Live Report: Colleen Green @ Rocket, Milano, 26/11/2013

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colleen green

di Sara Poma

Milano, martedì sera, uno dei primi, veri gelidi giorni di inverno. Al nuovo Rocket, sui Navigli, suona Colleen Green e il dilemma se cedere al demone delle serie tv sul divano o affrontare le brume di una città ghiacciata e (quella sera) particolarmente nebbiosa si presenta davanti a te, come una specie di terrificante domanda esistenziale. Alla fine, come in Trainspotting, scegli la vita, chiudi il computer e decidi di raggiungere Milano sud, anche per controllare di persona in che cosa si è trasformato il Rocket. Nota per i milanesi a questo punto: spazio infinitamente più grande; il cortile gigante sarà una manna dal cielo in primavera ed estate e l’interno è una specie di night anni ’80 e, in quanto tale, ha un suo innegabile fascino.

Come da tradizione, gli IndieRocketParty cominciano tardissimo, quindi a quasi mezzanotte sale sul palco il gruppo spalla, i Nostalgics, muniti di ottimi intenti shoegaze e Danelectro sfavillanti. Nell’attesa di Colleen Green, si ripassano le poche cose che si sanno di lei. Ovvero: è giovane, indossa sempre occhiali da sole quando suona e il suo ultimo disco è uscito per Sub Pop, che si deve essere evidentemente innamorata di quelle canzoncine da due minuti, ruvide, lineari e capaci di arrivare al punto nel giro di quattro secondi netti. In pratica, materializzandosi nella realtà, il rischio esiste: Collen Green potrebbe facilmente essere essere una delusione. Troppe cose buttate lì e potenzialmente studiate a tavolino: i Ray-Ban, la t-shirt oversize, le Reebok anni ’80. Tutto potrebbe essere molto fastidioso. E invece.

Invece, la ragazza è reale. Gli occhiali da sole e i jeans a vita alta spariscono di fronte alla sua voce limpida, cristallina, fragile, che è semplicemente perfetta dentro il muro di suono che la sua piccola chitarra piena di adesivi, quasi senza effetti, produce. Ci sono solo, la sua drum machine, i suoi riff, e la sua voce così pura e pulita e tutto questo insieme riesce a creare una nebbia che cancella tutto il resto e da cui non si vorrebbe più uscire. I pezzi di Sock It To Me (per lo più) scorrono via veloci, in un’unica ondata di ruvidezza che si mescola insieme a quella voce, ah quella voce!, e dopo un’oretta è tutto finito. Il Rocket nel frattempo si trasforma in una specie di club r&b. Si esce storditi, ma decisamente felici di non aver ceduto a Homeland in un ordinario martedì sera.

Redazione Rumore
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