Intervista: Lory Muratti

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di Barbara Santi
foto di: Manuel Cazzola, Debora Barnaba e Lory Muratti

Avete mai sentito parlare del “Burning Man”? Sì, l’evento che si svolge ogni anno nel deserto del Nevada, a Black Rock City: una città che vive una settimana l’anno, grazie a una moltitudine di artisti che la costruiscono, la abitano e la animano ogni agosto, dal 1986 a oggi. Ecco, per dire, il Nostro ha partecipato al “Burning Man”. Ma non è tutto. Il percorso di Muratti è fatto delle factory avanguardistiche di sapore Settanta, di viaggi, incontri e collaborazioni con personaggi illuminati e illuminanti, di studio e contemplazione, di romanzi visionari e canzoni irrequiete, di monologhi e concerti. D’altro canto, è fatto pure di DJ set, di installazioni e opere commissionate da grandi marchi, di spot e clip musicali, di eventi mondani e amore per la tecnologia. Due anime a confronto, mai in contrasto, che convivono e combaciano con la sua storia personale: Lory Muratti per anni ha vissuto nascosto dallo pseudonimo di Tibe e solo di recente ha deciso di rivelare nome e origini. Il suo ultimo lavoro, Scintilla, è composto da un romanzo e un disco, che viaggiano di pari passo: nove capitoli per altrettante tracce, ispirati all’esperienza del “Burning Man” e pubblicati rispettivamente da Feltrinelli e Mescal. Una buona occasione per ripassare insieme all’artista varesino un po’ di capitoli della sua storia.

Lory-Muratti-Official

Per anni hai pubblicato dischi e libri sotto lo pseudonimo di Tibe. Perché?

Lory Muratti: “Un’articolata storia familiare è l’origine di questa evoluzione. Tibe è lo pseudonimo dietro cui mi sono nascosto umanamente e artisticamente per anni, un nome d’arte legato al cognome della mia famiglia adottiva, i Tiberio. Come Tibe ho firmato i miei lavori precedenti e soprattutto ho dato vita al protagonista ricorrente dei miei romanzi: Lory Muratti. Quello che però nessuno poteva immaginare, nemmeno i miei collaboratori più stretti, è che Lory Muratti è il nome che la mia famiglia naturale avrebbe voluto per me. Scintilla è una sorta di ‘rinascita’, e, soprattutto, un ‘grado zero’ nella mia vita artistica e personale. Un modo per dare un posto e un senso ai fantasmi di una vicenda privata che non è sempre stato facile affrontare ed elaborare nella quotidianità”.

Come mai hai deciso proprio ora di abbandonarlo, cominciando a pubblicare ed esibirti con il tuo vero nome? Cos’è scattato?

L.M.: “Il tema del sogno e del ‘partire al suo inseguimento per ritrovare sé stessi’, è il fulcro del mio nuovo lavoro. Il viaggio che ho vissuto attraversando gli Stati Uniti alla ricerca di Scintilla (durante il quale hanno preso vita il romanzo e le canzoni a esso ispirate) è stato un viaggio alla ricerca di me stesso. Ho saputo delle mie origini molto tardi. Nell’arco di un anno sono scomparsi prematuramente entrambi i miei genitori adottivi e contestualmente il resto della famiglia mi ha rivelato quali fossero le mie vere origini. Così ho scoperto che Andrea Muratti, eccentrica e istrionica figura che appariva saltuariamente nella mia vita in qualità di ‘fraterno amico dei miei genitori’, era invece il mio padre naturale. Una realtà che non è stato semplice accettare, né ricollocare nel giusto modo. Per questo ho iniziato a scrivere, suonare e raccontare della famiglia Muratti come se si trattasse di personaggi inventati, firmando come Tibe, per poi arrivare, con Scintilla, a volermi riprendere quel pezzo di vita. Un ‘viaggio iniziatico’ con cui accorciare le distanze tra ciò che ero stato e ciò che avrei dovuto essere. È accaduto tutto nell’istante in cui mi sono accorto che Tibe si era sciolto per lasciare spazio a ciò che si nascondeva in me: talmente nascosto (seppur sotto gli occhi) da non essere visibile nemmeno al sottoscritto. Era tempo di ‘smettere le maschere’ ed essere me stesso. Scintilla in questo senso è quindi anche un’opera di vita”.

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Nel 2005 hai fondato il laboratorio creativo “H Park”. Esiste ancora? Se sì, che cos’è diventato?

L.M.: “‘H Park’ è stato il mio primo tentativo di realizzare un laboratorio basato sulla libera creatività dei suoi ‘abitanti’. Un collettivo di artisti e professionisti della musica, del teatro e delle arti visive che, interagendo con il sottoscritto, potesse dare forma a eventi live, contaminazioni e produzioni. Fu un progetto intenso e stimolante che diede buoni risultati ma che mi portò a togliere troppe energie al mio percorso artistico. Quando l’esperienza di factory si esaurì, fu per me necessario riprendere fra le mani il mio viaggio personale, pubblicando i romanzi di Tibe e il resto delle mie produzioni. Da queste nuove creature nacque, questa volta in modo naturale, il collettivo ‘the house of love’, che sta supportando davvero le mie visioni. Un gruppo di persone coinvolte nel progetto ‘Lory Muratti’ che, con Mescal e Feltrinelli, sta facendo crescere questo lavoro. ‘the house of love’ oggi è anche una casa-laboratorio dove lavoro e produco con i Testimoni, la band che mi accompagna in concerto, composta da persone con altre specifiche competenze oltre a quelle musicali: una famiglia nel lavoro e nella vita. ‘H Park’ fu una factory nelle intenzioni mentre ‘the house of love’ lo è nella realtà”.

La tua carriera è costellata di collaborazioni di diversa natura: da un lato il lavoro svolto per i grandi marchi (Nokia, Algida, Heineken, ecc.), in qualità di direttore artistico e video artist; dall’altra l’amore puro per l’arte, la contaminazione tra le sue forme, i collettivi… Chi è Lory Muratti?

L.M.: “Credo si possa lavorare e produrre in vari ambiti, seguendo una dialettica personale onesta e armonica. Creare installazioni per grandi brand mi ha permesso anzitutto di realizzare quei progetti, cosa che altrimenti sarebbe stata improbabile. Esibirsi durante grandi eventi sponsorizzati, mi ha dato invece l’occasione di portare la mia musica in luoghi che in altro modo non avrei forse toccato, incontrando, conoscendo e facendomi conoscere da un maggior numero di persone. Allo stesso modo, partecipare a occasioni artistiche più tradizionali mi ha dato molto sotto altri punti di vista. Non esiste alcuna distinzione per me tra il lavorare per un brand nelle vesti di art director, suonare in un club con i Testimoni, partecipare alla ‘Biennale di Venezia’ con un sound design o esibirmi a teatro nel ‘monologo*concerto’. Fa tutto parte della stessa dialettica e del mio modo di vivere l’arte e l’arte ha bisogno di giusti partner e di libertà espressiva. Se coloro con i quali lavoro accettano questa condizione di ‘libertà’ e chiedono solo che io sia me stesso, esistono tutte le condizioni per poter lavorare insieme”.

Non credi, anzi, che ultimamente manchi proprio la figura del mecenate?

L.M.: “Dici bene. La figura di chi ‘aiutava l’artista a esser tale e l’arte a prendere forma’ è sempre esistita. Poi qualcuno ci ha voluto far credere che non fosse bene e che fosse cosa impura e deplorevole. Mai pensiero attorno al tema del produrre arte fu più perverso e fuorviante, poiché la moria di investitori uccide l’arte e per l’artista le difficoltà del vivere quotidiano, che temporaneamente potrebbero rivelarsi stimolanti da un punto di vista creativo, sono però destinate a compromettere il suo lavoro e il suo spirito, se protratte a lungo termine. È anche pensando a ciò che ho dato forma al laboratorio di cui sopra, ché si configura sia come fonte di supporto sia come stimolo artistico”.

Muratti (Alex Grey @ Lorne Lanning's House)

Poc’anzi citavi la “Biennale di Venezia”. So che hai partecipato alla 54esima edizione con Everything Became Clear in a Flash, la sonorizzazione della personale dedicata a Lorne Lanning, ideatore del videogame Oddworld. A proposito di “contaminazioni artistiche”, ci racconteresti della tua collaborazione con Lanning?

L.M.: “Lorne è un genio visionario. Ci siamo incontrati durante il mio viaggio americano ed è subito scattata una forte curiosità reciproca. Grazie ad amici comuni, tra cui il DJ Josh Gabriel, mi sono ritrovato nella sua casa di Berkeley dove mi venne chiesto di unirmi alla loro carovana per il ‘Burning Man’, un estraniante evento ed esperimento di collettività abitativa che si svolge nel cuore del deserto del Nevada. In quell’occasione ebbi modo di conoscere la filosofia di vita di Lorne, il suo rapporto lavorativo con Jack Goldstein, le sue ‘creature’ digitali e pensammo a una collaborazione che unisse le nostre reciproche intuizioni. Lorne è quindi entrato a far parte del mio universo immaginifico e del mio nuovo romanzo: del viaggio condiviso con lui racconto nelle pagine del libro. L’approdo alla “Biennale” è stato la conseguenza di un incontro di anime che avevano qualcosa da condividere. Musicare l’universo da lui racchiuso nella saga Oddworld è stato un onore e un’occasione stimolante per esplorare uno dei media più potenti di quest’era. Le nuove generazioni trascorrono molto più tempo a contatto con un videogame di quanto non facciano ascoltando un disco, leggendo un libro o guardando un film. Come dice Lorne: ‘Creare universi in cui così tante giovani menti vivranno virtualmente storie ed emozioni è una grande responsabilità e per farlo ci vuole profonda coscienza e grande attenzione’”.

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Con Lanning sei partito alla volta di Black Rock City, per il “Burning Man”, che in realtà non è una vera città. Difficile immaginarsela. Vuoi provare a descriverla?

L.M.: “Black Rock City è un’effimera città popolata da una fulgente società che nella settimana del Labour Day (l’ultima di Agosto), si ritrova nel cuore del deserto del Nevada in una distesa pianeggiante chiamata Black Rock, dove negli anni ’70 sognatori d’altri tempi andavano a caccia di adrenalina organizzando gare di velocità su terra con le loro auto-razzo. È lì che il ‘Burning Man’ prende vita ed è attorno a una figura lignea alta più di trenta metri che si sviluppa l’insediamento composto da campi tematici delle più disparate specie. L’Uomo è il centro di tutto il raduno e da lui partono le promenade, quattro strade battute ogni mattina e ogni sera da camion cisterna così da risultare più visibili e praticabili a piedi, in bicicletta o con ‘veicoli mutanti precedentemente autorizzati’, che sono gli unici mezzi con cui è possibile muoversi per Black Rock. I mezzi convenzionali sono vietati e vanno lasciati alle spalle dell’accampamento all’arrivo. Le promenade sono un importante riferimento e collegano l’Uomo a tre punti dell’insediamento, che si sviluppa con pianta semicircolare attorno allo stesso. Una quarta promenade corre poi dall’Uomo verso l’infinito desertico: proprio lì ho scritto la settima traccia del disco, Promenade. Per farsi un’idea delle dimensioni di Black Rock City, basti pensare che nell’edizione del 2008 copriva 5 miglia quadrate: pari quasi all’estensione della zona downtown di San Francisco. Per partecipare al ‘B.M.’ occorre prepararsi: escursione termica, tempeste di sabbia e difficili condizioni climatiche prevedono allenamento. Ma occorre anche avere una corretta ‘attitudine mentale’. La società di Black Rock City si basa su alcune regole, tra cui la collaborazione e la condivisione, la volontà di essere profondamente se stessi, una forte coscienza bioetica e, soprattutto, no spectators, ovvero tutti sono chiamati a partecipare attivamente a quella realtà parallela che si crea laggiù. Ovviamente nessuno può impedirti di osservare ma è consigliato ‘fare’, esibirsi, interagire e partecipare alla vita della comunità”.

I “veicoli mutanti autorizzati” mi hanno fatto venire in mente quelli dei Mutoid: mezzi di trasporto avveniristici costruiti con materiale riciclato. Come sono fatti?

L.M.: “I veicoli mutanti sono costruiti con un approccio vicino a quello della Junk Technology o dei Mutoid. Racchiudere però in un’unica categoria queste improbabili installazioni in movimento è arduo, poiché sono il prodotto della più libera creatività e follia applicata che io abbia mai visto. Auto trasformate in zebre, plum cake a pedali il cui ‘ripieno’ è il pilota stesso, autobus a due piani trasformati in paperi giganti o in velieri, club su ruote che accendono la notte del deserto e infinite altre visioni tridimensionali: carri funebri lisergici, impossibili risciò e cable car, topi giganti realizzati adattando furgoni e ancora. I veicoli mutanti del ‘Burning Man’ sono la più intrigante manifestazione di quella libera, estrema e colorata attitude tipica della Bay Area e del Sud della California. Quando il sole è alto, quelle creature sembrano essere uscite da film alla Mad Max, mentre la notte illuminano la profonda oscurità del ‘non-luogo desertico’ con luci sospese, laser, fuochi e gloves, apparendo sospese nel nulla e ridisegnando i contorni di Black Rock. Tra i mutant vehicle che ho visto e che mi hanno ospitato, ricordo in particolare una grande jeep-mangianastri dove il Dj, posizionato al posto della cassetta, ‘girava’ solo musica psichedelica anni ’70 e ’80: dai Grateful Dead ai Pink Floyd, dai Creation ai Dream Syndicate. Ho passato un pomeriggio a ciondolare ballando lì accanto, tra folate di vento e sabbia negli occhi, in attesa del tramonto”.

Mutant-Vehicle-2

A proposito: come e dove trascorrevate le giornate?

L.M.: Le giornate seguono un flusso imprevedibile. È impossibile fare un programma senza essere sopraffatti da circostanze improvvise che ti portano ‘altrove’. L’insediamento è composto da numerosi campi tematici al centro del quale viene data forma a un Dome, cioè un luogo dove il gruppo che ha creato il campo si trova per rifocillarsi e per dedicarsi alle proprie attività. Ogni campo ha la propria filosofia: chi è più vicino alla spiritualità, chi organizza rave, chi concerti, atelier di yoga, happening sui trampoli, incontri tematici di ogni tipo… Il flusso di attività al ‘Burning Man’ non si interrompe mai e non c’è confine alcuno tra la notte e il giorno”.

A giudicare dalle immagini, oltre ai film fantascientifici, tornano in mente anche i Musical, su tutti Jesus Christ Superstar. Quanto c’è della tradizione del Musical, in quegli happening?

L.M.: “Al ‘Burning Man’ vive qualsiasi forma di espressione, purché libera e non corrotta. Non c’è però un solo immaginario al quale i partecipanti siano tenuti ad aderire. Ogni anno gli organizzatori propongono un tema ma si è liberi di viverlo nel modo che si sente più vicino alla propria personalità. Sono incappato anche in situazioni e gruppi di persone che ricordavano proprio la tradizione del musical anni Settanta a cui tu fai riferimento. Credo sia molto sentita dai creativi della Bay Area e Jesus Christ Superstar in particolare è l’opera che, come immaginario, più si confà alla situazione del ‘B.M.’. Forse per via del mood “hippie” e perché il film originario fu girato nel deserto del Negev fra le rovine di Avdat, che ricordano alcune delle installazioni abitative presenti nel deserto del Nevada”.

Quali sono stati gli happening che ti hanno segnato di più?

L.M.: “Non riuscirei a districare il flusso di immagini che ho vissuto in quei giorni. Entravo e uscivo da luoghi, performance e installazioni senza soluzione di continuità. Fra le cose più emozionanti non posso però non citare le ‘opere del deserto’: installazioni di artisti provenienti da tutti gli Stati Uniti create appositamente per la Playa (altra definizione data alla distesa desertica). Oltre al ‘Burning Man’ stesso (l’enorme figura lignea, centro del raduno), al Temple (punto di ritrovo e di meditazione) e ai ‘veicoli mutanti’, penso all’Arbor Animus, un salice piangente le cui fronde erano composte da rami di led luminosi e foglie di carta dove le anime di passaggio appuntavano pensieri, desideri, paure e speranze. Sotto quelle fronde ho ambientato uno dei passaggi più significativi del romanzo”.

Perché tutto ciò mi ricorda l’approccio del Living Theatre? C’è un legame?

L.M.: “Credo che la fondatrice del Living Theatre, Judith Malina, si troverebbe a proprio agio a Black Rock City. Le caratteristiche libertarie e sovversive di quel movimento teatrale sono molto vicine all’approccio con cui andrebbe vissuta l’esperienza del ‘B.M.’”.

Tornando a te: ci parleresti delle tue performance, al “Burning Man”?

L.M.: “Nel campo tematico di cui facevo parte mettevo musica e creavo sound design durante la giornata. Trasporre in musica ciò che vedevo era il mio compito. È così che ho iniziato a lavorare al disco Scintilla, che ho proprio pre-prodotto a bordo del camper condiviso con due amici di San Francisco. Nel mentre raccoglievo immagini e suggestioni che avrebbero alimentato la mia storia, il mio inseguimento della sfuggente donna che porta il nome del lavoro, Scintilla: una creatura surreale che ho realmente intravisto a un vernissage del pittore piacentino William Xerra, poco prima di partire per gli Stati Uniti”.

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A questo punto dovresti raccontarci come hai composto e scritto il disco e il libro, Scintilla: nove capitoli per altrettante canzoni. 

L.M.: “Libro e disco sono due anime della stessa storia, figlie del medesimo viaggio di cui parliamo. Ho raccolto la storia strada facendo, appuntandone il possibile sviluppo mentre attraversavo gli Stati Uniti e cercando di catturare le armonie che sentivo nascere dentro me. Le due opere condividono luoghi, atmosfere e personaggi e hanno continuato a interagire e influenzarsi reciprocamente anche durante la stesura. Rientrato in Italia ho arrangiato le canzoni che avrebbero composto l’album con i Testimoni, che mi hanno aiutato a riprodurre quelle sensazioni e contemporaneamente ho iniziato a lavorare al libro, dalle cui pagine ho tratto i testi dei brani. Un doppio lavoro, al centro del quale vive la figura di Scintilla. Due opere distinte e autosufficienti, capaci però di aprire scenari articolati con più livelli di lettura se esplorate entrambe”.

A proposito dei Testimoni: vuoi presentarci la band?

L.M.: “Sono un gruppo di splendidi musicisti e di persone uniche. Ho sempre creduto che i viaggi importanti vadano condivisi solo con chi denota la tua stessa natura e che le imprese della propria vita debbano essere costruite con chi ha dimostrato di essere davvero al tuo fianco. I Testimoni nella formazione definitiva sono questo per me; persone informate sui fatti più importanti della mia vita e sul senso profondo di ciò che racconto attraverso i miei lavori. Alcuni di loro, come Cristian Bartoccetti (basso) o Andrea De Taddeo (batteria), mi camminano accanto da anni, altri si sono aggiunti strada facendo, come Manuel Cazzola (chitarre) e Paolo Zangara (chitarre e vecchie tastiere). Altri infine hanno contribuito semplicemente alla stesura del disco. Fra questi ‘Testimoni di passaggio’ c’è Leo Abrahams, musicista e produttore inglese che da anni lavora al fianco di Brian Eno e di artisti come Brett Anderson, Imogen Heap, Marianne Faithfull, Pulp…”. 

L’ultima novità è il “monologo*concerto” per voce e piano: uno spettacolo che viaggia in parallelo ai concerti con i Testimoni…

L.M.: “È la versione acustica e ‘teatrale’ di Scintilla’. Il ‘monologo*concerto’ mi vede da solo sul palco a recitare momenti tratti dal libro e suonare brani del disco piano e voce, per far rivivere quel viaggio in una veste più attoriale. Un’ora di musica e parole da chansonnier d’altri tempi dove la storia narrata nel romanzo prende vita facendosi tridimensionale. Un monologo interiore che ripercorre i punti più emozionanti del libro, scanditi a contrappunto dai brani ri-arrangiati per pianoforte e voce in un tutt’uno scenico. È una performance nella quale mi metto davvero a nudo, raccontando emozioni di fuoco, visioni surreali, notti trasfigurate, viaggi, improvvisi cambi di direzione e sensuali orrori”.

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