Live Report: ATP Festival End of an Era Part 1

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atp end of an era 1

di Renato Angelo Taddei

Il freddo austero della perfida Albione ci accoglie nell’uggiosa mattinata di Camber Sands, che tutto sembra tranne una località turistica – anzi, vien quasi da pensare ad un moderno campo di lavoro russo, senza i comfort del caso. La location di quest’edizione dell’All Tomorrow’s Parties è chiaramente depravata dal tempo poco piacevole e l’infinita freddezza degli appartamenti non aiuta l’entusiasmo. Entusiasmo che però inizia subito a salire all’inizio dei concerti di venerdì. Apertura lasciata ai nostri His Clancyness, che fanno un bel set: sembrano un po’ emozionati, ma tengono botta con le loro melodie affusolate. Segue nella sala centrale la bellissima Scout Niblett che  canta incazzata accompagnata da un batterista perfettamente coinvolto e, purtroppo, un chitarrista con i settaggi di un live di Baglioni (di cui, sinceramente, non ho capito l’utilità). I Magik Markers fanno un set devastante facendo salire il livello di aspettative per i futuri concerti. Lasciano il palco agli Icarus Line, che non conoscevo e mi hanno positivamente sorpreso per la grinta e lo spirito rock ‘n’ roll che li contraddistingue: un set bello carico anche il loro.

L’ATP ha, da sempre, puntato su una varietà della proposta, non mancando mai però di proporre un buon numero di gruppi post-rock come centro nevralgico. Iniziano il giro, seppur cacciati in tale ambito con una certa faciloneria, i múm che probabilmente possono a ragion veduta essere nominati come peggior live act della prima giornata, con i loro suonini e vocine del cazzo.

Nella sala piccola nel frattempo inizia la prima proposta di elettronica: Blanck Mass fa il suo tra melodie eteree e dolci cuscini di suono. Purtroppo ne vedo una minima parte perché sullo stage 1 iniziano i concerti seri, quelli attesi (da me). Lee Ranaldo and The Dust superano le aspettative con un set serrato e perfetto. La nuova vita artistica di Ranaldo, ripulita dalle asperità dei Sonic Youth, si ciba di melodie Remiane e psichedelia di qualità, fuse con perfetto equilibrio. Di base c’è una capacità di scrittura senza possibili paragoni. La band lo segue perfettamente e il concerto si dipana tra gli ultimi due dischi con equilibrio e maestria. L’indie rock diventato adulto. Mi perdo Dinos Chapman nello stage 2 per restare attaccato alla transenna per l’ultimo concerto della serata. I Low propongono, ad oggi, uno dei migliori live che si possano immaginare. Il pubblico numerosissimo (la sala è colma) li accoglie in un assoluto silenzio che con il passare del tempo diventa adorazione. La bellezza dei loro pezzi dal vivo viene esaltata dalla passione – che ad uno sguardo distratto potrebbe sembrare misurata – che mettono nell’esecuzione. I 3 di Duluth eseguono C’mon quasi per intero intervallando con pezzi del passato: quelli delle lacrime, dei silenzi che sovrastano le melodie. Poco o niente dall’ultimo album, e forse non è un male. Tempo per due chiacchiere con il sempre gentilissimo Ranaldo, raggiunto da un amico molto alto (di cui parleremo tra poco), una birra e si va a letto: niente feste per stasera, il giorno 2 è il giorno grosso.

Il sabato del villaggio di Camber Sands inizia con una birra alle 10.00 di mattina, un pranzo frugale (ovviamente a base di pancetta) e i Tortoise messi ad aprire la seconda giornata del festival. I Tortoise fanno ormai free jazz (ma forse l’hanno sempre fatto) e si piacciono davvero tanto, si vede che hanno il cazzo dritto mentre se la suonano. Sembra di stare in quella puntata di South Park in cui i nostri si trasferiscono a San Francisco, dove gli intellettuali à la page viaggiano in auto elettrica e si annusano le scoregge per assaporarne la fragranza. Il secondo concerto è lasciato ad un intellettuale newyorkese, l’amico alto di Ranaldo: Thurston Moore è invecchiato, stizzito e fermo al 1991. La separazione con la moglie e il resto dei Sonic Youth deve avergli fatto male – infatti si circonda di vere e proprie controfigure degli ex compagni (anche donna al basso), ma della verve e dell’urgenza espressiva del suo vecchio gruppo non resta più niente, se non le canzoni smaccatamente uguali al suo passato.

Mi resta il tempo per vedere un paio di pezzi del sorprendente Har Mar Superstar, divertentissimo, e poi ci si sposta per uno degli eventi più attesi del festival: i Television. Poco da dire: sono vecchi, Verlain è senza voce e sa stare sul palco quanto lo saprebbe fare un rinoceronte, i pezzi sono quelli – suonati con una certa classe, restano un marchio indelebile sulla musica rock, ma altro non c’è. I Wolf Eyes nella stanza di sotto intanto fanno il solito set terrificante e pieno di orrore, in grado di rendere pauroso anche un giorno di sole. I Porn fanno un buon concerto, nulla di esaltante, ma una bella ora di musica.

Si passa a un altro main event, i Godspeed You! Black Emperorintensi e di feroce emotività, non mi dicono assolutamente nulla – ma è un nulla ben fatto, non c’è dubbio. Ho 45 minuti di tempo per godermi in sala due (quanto fa “Number One anni ’90” il concetto di sala 2?) il set elettronico migliore del festival e probabilmente dell’anno: Oneohtrix Point Never è il futuro prossimo, l’estasi insperata. L’evoluzione della specie e l’ennesima figura chimerica della nuova elettronica. Fonde tutto, frulla tutto e lo elabora. A noi arrivano solo i suoni finiti, davvero qualcosa di nutriente per lo spirito.

Fatta una scorpacciata di eterea e sintetica felicità salgo nel main stage per mettermi in transenna per l’ultimo concerto, quello che aspettavo in assoluto di più, i Dinosaur Jr. Molto sinceramente non mi aspettavo nulla oltre un normale concerto, dato che di loro ne ho visti parecchi e sempre di ottimo livello. Ho paura che non batteranno i Low. Ma mi sbagliavo. Sarà stata l’atmosfera, sarà stato il torpore indotto dai Godspeed, ma la platea decide di risvegliarsi e di dare prova della sua esistenza. Da The Lung in poi, terzo pezzo della scaletta, inizia un lungo inarrestabile pogo: qualcosa di felice, divertito e violento allo stesso tempo. I Dinosaur, che dal palco sembrano notare la cosa, velocizzano e incattiviscono tutti i pezzi, cristallizzando il momento in un assurdo e incontrollabile vortice di elettricità. La gente si fa male, balla, fa crowd surfing, perde roba, si diverte un mondo. Ecco, si, mi sono divertito un mondo. E così parrebbe pure per J. Mascis, seppur fermo nel suo autismo. Concerto dell’anno.

Sembra che l’entusiasmo si sia trasferito dal concerto agli appartamenti: tutte le luci sono accese, c’è musica ovunque, ci sono feste ovunque, la gente cammina con la sua bottiglia e parla della musica, qualcuno sta fumando delle canne, la maggior parte si sta sbronzando, quelli nell’appartamento di sopra sembra stiano scopando.

La domenica non c’è nessun nome grosso, ma c’è della bellissima musica. Su tutti The Haxan Cloak, che sbaraglia la concorrenza con dei droni a effetto bomba, mortiferi distruttori di timpani. Pharmakon picchia a bestia mentre i Forest Swords fanno la loro con un set di elettronica meno tirata e un po’ più rilassata, chillout da post sbornia sonica. Apprezzabilissimi. Sul fronte del rock chitarristico mi colpiscono i Beak, sopratutto quando deviano su sonorità più propriamente new wave, e Hebronix, nuovo progetto di Daniel Blumberg, ex cantante degli Yuck. Sono in due, lui con una chitarra effettata e una tizia ad un synth analogico. Mi piace, molto sognante, lui è bravo e merita attenzione. Per un divertente caso fortuito i Los Planetas chiudono le esibizioni sul palco principale, ma ad ascoltare “i Nomadi” spagnoli non c’è praticamente nessuno. I pochi rimasti sono svenuti sul pavimento.

Redazione Rumore
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