Live Report: Spain @ Circolo Magnolia, 20/11/2013

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spain

di Elia Alovisi

Il concerto degli Spain al Magnolia di Segrate è stata un’esperienza ambivalente. L’atmosfera era, in teoria, perfetta: fuori, il primo gelo polare e il fango dell’idroscalo. Dentro, un’aria calda impregnata di fumo e un leggero sottofondo jazz. Quelle serate da passare con in mano un bicchiere di amaro e, se proprio, tra le dita una sigaretta ogni tot in barba a novembre. Il pubblico è quello giusto, non troppo e non troppo poco, ed è affascinante il religioso silenzio che cala sul locale appena la band sale sul palco e il frontman Josh Haden mormora un timidissimo “hello”, con l’ultima vocale che quasi si perde nelle onde sonore emanate dall’impianto. Le quattro figure sul palco sono tutto tranne che imponenti e la stasi regna quasi sovrana – Haden canta perlopiù a occhi chiusi toccando gentilmente le corde del suo basso, il batterista Matt Mayhall resta avvolto dal fumo e dall’oscurità a toccare leggermente i suoi piatti e i suoi tamburi, ai lati Daniel Brummel si lancia in mini-virtuosismi tra una strofa e l’altra mentre il collega Randy Kirk si alterna tra le sei corde e le tastiere, svolgendo un ruolo di sottofondo (ma fondamentale per il sound del gruppo).

Ora, il consequenziale rischio logico è la reazione non esattamente favorevole che potrebbe avvolgere un ascoltatore non abituato a tali sonorità e a tale immobilismo sul palco. Inoltre, gli Spain non fanno nulla per facilitare l’esperienza: i loro testi ruotano attorno a determinati concetti piuttosto semplici:

1. “Sono solo”.
2. “Ho paura di morire e morirò presto”.
3. “Ti amo”.
4. “Non mi ami più”.
5. “Ho tanta paura”.

Ora, l’amore e la morte sono tematiche che da sempre sono servite da carburante per l’ispirazione artistica, e ugualmente riescono a far vibrare le corde più profonde di chi resta ad ascoltare. Come pure la semplicità, spesso, aiuta un cantautore a far arrivare il suo messaggio in modo efficace a chi lo ascolta. Mi vengono in mente gli Yo La Tengo di And Then Nothing Turned Itself Inside-Out, in una canzone come Our Way to Fall:

[quote]Ricordo com’era prima che ci incontrassimo / Ricordo come mi sedevo vicino a te / E ricordo il modo in cui fingevo di non guardarti.[/quote]

Un concetto semplice, un’immagine naturale, ma che in qualche maniera non è esplicita. Il narratore non dice “Mi vergogno”, ce lo fa dedurre. Ecco: gli Spain, nonostante la loro leggerezza sia capace di riaprire efficacemente ferite rimaste nell’inconscio, ogni tanto inciampano nel banale. Pensiamo ad I Lied:

[quote]Ti ho detto che ti amavo / Mentre ci tenevamo per mano in riva al mare / Mi sono avvicinato e te l’ho sussurrato nell’orecchio / Ho mentito / Mi sento così morto dentro / Non potrei amarti nemmeno se ci provassi.[/quote]

O alla sensazione di impotenza e precarietà che vorrebbe esprimere Dreaming of Love:

[quote]Siamo così vicini / Siamo così vicini / Oh, quando ci tocchiamo / Scompariamo.[/quote]

La leggerezza e la sottigliezza della vicinanza, la fragilità dell’amore e la disperazione sono concetti non troppo diversi da quelli espressi da altre band più o meno accostabili a questo immaginario, vedi i My Bloody Valentine di Loveless – ma, per qualche motivo, le loro liriche hanno sempre una sorta di “estro”, un salto logico che porta i concetti non ad essere detti paro paro ma ad essere desunti dalle immagini che ci vengono presentate. Prendiamo When You Sleep:

[quote]Quando ti guardo / Oh, non capisco che cosa è reale e cosa no / Una volta ogni tanto. / E mi fai ridere.[/quote]

Ecco, quell'”E mi fai ridere” che cosa c’entra? Niente, ma ci tocca. Ci stupisce. Cattura la nostra attenzione e ci risveglia dal maelstrom sonoro che ci circonda. È il punctum che teorizzava Roland Barthes nella sua analisi dell’immagine fotografica che era La camera chiara. La musica degli Spain ha un innegabile potere catartico (giustappunto il concerto finisce con Spiritual, che potete ascoltare sotto): ti mette di fronte ai tuoi limiti in quanto essere umano, ti sbatte in faccia la tua fragilità e la vergogna che provi, mette alla prova la tua sopportazione, ti ricorda quant’è difficile riuscire a comunicare. Ma lo fa, per qualche motivo indefinito, in maniera leggermente meno efficace di altri. Ed è per questo che, presumo, al Magnolia non eravamo in tantissimi – tutti presi, tutti attenti e tutti in religioso silenzio, ma forse inconsciamente un po’ annoiati e volenterosi di uscire a vivere, non di restare a piangerci addosso.

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