Intervista ai Suede. Brett Anderson: “Una delle regole che ci siamo imposti è: tanta musica e meno industria musicale”

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di Nicholas David Altea

A furia di parlare di Oasis e Blur si rischia sempre di focalizzarsi su quelle che sono due band fondamentali sì, ma non le uniche vitali al brit pop. Il colpo che fecero i Suede, fu quello di andare ad inserirsi esattamente in un momento importante della musica inglese: da una parte l’abbassamento dell’interesse per la MADchester più allucinogena (e lo shoegaze) e dall’altra, quello che diventerà appunto una sorta di duopolio, “una gara di pesi massimi” come diceva NME nel ’95, la perenne lotta mediatica a suon di dischi e provocazioni appunto, tra Oasis e Blur. Perché andare sulla copertina di Select Magazine avvolto dalla Union Jack inneggiando agli americani di tornarsene a casa (“Yanks go home!”) alludendo ad una fine dello strapotere del grunge, era una forte presa di posizione, una di quelle posizioni scomode ma basilari che decretarono l’inizio di qualcosa di diverso, che segnerà il decennio. Mettiamoci poi l’ambiguità sessuale ostentata, la trasgressione sotto tutti i suoi aspetti ed ecco un manifesto esplicito, da censura anche, come la copertina del primo album, Suede (1993), dove una donna sulla sedia a rotelle e una conoscente si baciano, foto presa originariamente dal libro Stolen Glances: Lesbians Take Photographs di Tessa Boffin and Jean Fraser. Brett Anderson era ed è tutt’ora icona di stile e classe, uno dei “Gentlemen del brit pop”, che però sul palco trasforma questa sua apparente pacatezza versando benzina su un fuoco mai spento, quel coinvolgimento animale e sensuale che solo lui riesce ad evocare muovendosi. Ora sono tornati a tutti gli effetti, con un disco nuovo, Bloodsports (2013).

Brett+Anderson

Siete ritornati alla grande con un disco intenso, pregevole e di una qualità sopraffina. Sono passati 20 anni dal primo album, Suede (1993) ed ora è uscito anche un box set di vinili con tutti i vostri dischi. Come ci si sente buttando un’occhiata indietro, quando nelle copertine dei magazine ci andavi vestito in maniera provocante?

Brett Anderson: “(Ride) Amo rivedere quelle robe, però non vorrei farlo adesso a 46 anni, sono cose da gruppo emergente agli inizi, è qualcosa di veramente emozionante quando un gruppo si fa notare così. Guardando indietro, forse, siamo stati anche su troppe copertine. Sai, eravamo giovani e ci siamo divertiti. Una delle cose positive di farlo adesso vent’anni più tardi è che non siamo fenomeni, è soltanto musica, dischi e concerti e non dobbiamo fare più follie 24 ore su 24. Riassumendo: guardo indietro con piacere però sono contento di non farlo oggi”.

È un caso che gli ottimi risultati di questo disco, Bloodsports (2013), coincidano con il ritorno alla collaborazione e alla produzione di Ed Buller?

BA: “No, non è stata una coincidenza per niente, ha virtualmente sempre fatto parte del gruppo, c’era con noi nel primo e c’era quando non avevamo ancora firmato e nessuno aveva mai sentito parlare di noi. Negli alti e bassi del gruppo lui è sempre stato con noi. C’era quando Bernard Butler nel 1994 ci lasciò, c’era quando Richard Oakes (nello stesso anno) si è aggiunto a noi e credo che con lui abbiamo fatto la miglior musica ma credo anche che lui abbia fatto i suoi migliori dischi con noi. Io volevo qualcuno veramente partecipe, che ci amasse e che sapesse dirci quando andava bene e quando andava male e che veramente ci motivasse. È una cosa che non si può ottenere assumendo una persona apposta, che venga quattro settimane e che riesca a integrarsi col gruppo. Lui è della famiglia con tutte lati positivi e negativi che ne risultano”.

Ti faccio una domanda delicata ma sempre meglio che dare spazio a gossip giornalistici inutili. Come sono i rapporti con Bernard Butler, ex-chitarrista della band?

BA: “Di base vanno bene, casualmente ci vediamo. Mio figlio acquisito e suo figlio sono tifosi dell’Arsenal e ci vediamo ogni tanto alle partite. Non avrei pensato potesse succedere vent’anni fa. Le cose vanno bene. È stato gentile verso i Suede e abbiamo vite completamente diverse”.

È mancato un eccezionale precursore romantico e decadente come Lou Reed. Quanto c’è di Lou Reed in te e nei Suede?

BA: “Non molto come personalità ma moltissimo in termini di inventiva perché ho iniziato come chitarrista e alcuni dei primi pezzi che suonavo erano dei Velvet Underground (o Lou Reed) come Sunday Morning e Perfect Day. Queste bellezze quindi non erano solo la musica che lui stesso suonava e scriveva, influenzavano gruppi come Echo and The Bunnymen, che ho amato crescendo e che mi hanno segnato tantissimo. Il nostro suono sarebbe molto diverso se lui non fosse mai esistito e credo sia vero anche per il 99% dei gruppi chitarristici; è quasi come se fosse l’inizio della musica moderna per me. Le sue canzoni erano facili da imparare però avevano molta profondità e la sua scomparsa è un vero peccato”.

Come vi rapportate al giorno d’oggi con un’industria discografica che in 10 anni ha sconvolto le regole di mercato e di promozione? Vi trovate a vostro agio?

BA: “Sono abbastanza indifferente perché una delle regole che ci siamo imposti era “tanta musica, meno industria”. Noi seguiamo la nostra strada e ci auto-produciamo i dischi, quindi la nostra vita non è cambiata molto. Siamo partecipi della casa discografica ma abbiamo sempre fatto le cose a nostro modo. Mi dispiace molto per gruppi giovani perché non sembra ci sia nessun modo per le band emergenti della classe operaia di guadagnarsi da vivere con la musica. Gli UK erano fucina di tipi eccentrici della working class che facevano della musica la loro vita, come John Lydon e Morrissey e che ora non vedo più. Adesso è tutto grandi concerti e festival ed è molto difficile per queste band passare 24 ore a vivere di musica come facevamo noi. Quindi per noi non è cambiato gran che mentre per loro sì”.

Ci sono giovani band inglesi che apprezzi particolarmente?

BA: “Ce ne sono centinaia, tipo i Teleman (che fanno da supporto al tour), the Horrors, Toy, British Sea Power e poi Bristol in generale ha molti gruppi chitarristici che spuntano ogni settimana”.

Avete caratterizzato gli anni ’90 col vostro sound e col vostro stile. Eravate la frangia glam del brit pop insieme a Marion e i primi Placebo. Cosa ti manca di più di quegli anni?

BA: “Non mi manca per niente, assolutamente. Son contento di essere stato un gruppo pop quando avevo vent’anni, era eccitante essere mainstream. Mi piace davvero tanto quello che sto facendo adesso e non essere in mezzo ai media e alle chiacchiere. Son contento di quello che sono stato ma non mi manca”.

Bloodsports è tra i vostri migliori album. Cosa preferite di questo ultimo disco?

BA: “Parlo con molta gente e sono contento di sentirli dire che secondo molti è il secondo o terzo album preferito. Abbiamo preso una direzione sbagliata con A New Morning (2002) e con quell’album abbiamo fatto un qualcosa non degno di noi. Bloodsports mi sembra sia l’album che ci rimetta in carreggiata, sappiamo quello che stiamo facendo e quello che potremo fare ancora di straordinario in futuro. Sembra essere un nuovo inizio”.

Avete cambiato il vostro modo di scrivere durante gli anni?

BA: “Non è cambiato molto, la tecnologia è cambiata, ora ricevo delle demo da Richard su mp3 invece una volta li ricevevo su nastro. Però a grosso modo funziona allo stesso modo, i ragazzi scrivono delle cose e ci scrivo sopra poi gli diamo una forma durante le prove”.

Hai qualche scrittore preferito?

BA: “Oddio ce ne sono tanti, forse George Orwell che ha scritto cose molto interessanti, lui non lo si legge per il linguaggio che utilizza ma lo si legge per le emozioni. È quasi invisibile mentre scrive, quando leggevo 1984 e altro da giovane, non conoscevo nulla di lui. Le idee erano così forti che rimanevano impresse nella mente per sempre.

Hai mai scritto libri o poesie?

BA: A me piace molto il modo in cui le parole e la musica si accrescono l’una con l’altra. Non scrivo mai un testo senza avere la musica in testa, perché altrimenti non funziona. Se mi metto a scrivere senza musica mi sembra essere metà di me stesso”.

Cosa ti aspetti dal pubblico italiano dopo undici anni che non vede i Suede dal vivo?

BA: “Sono molto emozionato, è tanto che non ci suoniamo e mi aspetto una cosa potente con un pubblico rumoroso. La cosa preferita dell’Italia è che cantano assieme a noi, ci riescono anche bene ed è una bella combinazione. Non vedo l’ora di venirci, è sempre stato un posto fantastico, è un peccato che non riusciamo a venirci più spesso e me lo aspetto molto carico”.

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