Intervista: Caged Animals

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di Elia Alovisi

Vincent Cacchione fa musica da solo, e  quando la pubblica si chiama Caged Animals. Poi, a suonare gli strumenti, mette delle facce familiari. E insieme girano l’America e il mondo, dopo essere partiti da un piccolo blog. A leggerlo, quel piccolo blog, ti rendi conto che Vin ci crede un casino. Si prende tempo per spiegare il senso delle sue canzoni, si racconta, farcisce i post di cuoricini e faccine che neanche fosse fermo ai primi messaggini che mandi alla tipa che ti piace. E anche se i suoi pezzi sono semplici semplici hanno dietro delle storie complicate: c’entrano le green card, la ricerca della felicità e Jeff Mangum dei Neutral Milk Hotel, ad esempio. A livello musicale, i punti di riferimento sono l’indie pop, il twee, il cantautorato elettronico (pensate a una versione underground di Owl City, ma senza tormentoni). Pensiamo a uno Youth Lagoon meno visionario e più compresso in una forma-canzone. Il suo nuovo disco si chiama In the Land of Giants. Ne abbiamo parlato un po’, assieme a tante altre cose (tra le tante: le faccine nelle conversazioni, il valore della stampa, e lavorare come fattorino di ossigeno per malati gravi).

Come mai hai scelto di sviluppare Caged Animals come progetto solista e non come una band?

Vincent Cacchione: “È stata una questione di circostanze. Poco più di tre anni fa ho comprato il mio primo portatile, e ho iniziato a giocherellare con qualche programma gratuito, a registrarci musica sopra. Ed è così che sono nati i primi pezzi dei Caged Animals. Non mi aspettavo che la cosa sarebbe effettivamente andata da qualche parte (ride). Ai tempi avevo anche una band, i Soft Black, e componevo e registravo anche con loro – ma di notte mi mettevo a sperimentare, e quei pezzi sono usciti fuori praticamente da soli. I blog hanno iniziato a scriverne e a una cosa ne è seguita un’altra. Abbiamo iniziato a ricevere richieste dalla stampa e non avevamo nemmeno un manager o un’etichetta – stavamo succedendo, semplicemente”.

Quanto pensi conti per un artista del tuo livello il supporto della stampa, o di un sito internet? 

VC: “Non è una cosa a cui do tanta attenzione. Penso che molta gente prenda quella roba seriamente, e capisco perché. C’è così tanta musica là fuori e non puoi conoscerla tutta, indipendentemente da quanto tu sia appassionato. È come se ci fossero milioni di progetti, e serve qualcuno che ti dia delle indicazioni. Io sono fortunato, faccio molti concerti e quindi vedo sempre nuova musica – è così che scopro la maggior parte delle cose che ascolto. Leggo le stesse cose che tutti leggono, ma prendendole con le pinze”.

Sul nuovo disco sembri parlare davvero molto d’amore. Con delle punte di ottimismo in The Mute + The Mindreader, quando ti metti a cantare “Condividi la tua gioia con una persona che ti ama”.

VC: “È come se a volte, in un qualche modo, la gente si sentisse troppo difettosa per amare. E con quel pezzo volevo dire che tutti hanno la possibilità di incontrare qualcuno. Ci sarà qualcuno che parlerà la tua stessa lingua”.

 Invece il punto più basso sembra essere Tiny Sounds, in cui te ne esci con frasi come “La mia paura di morire mi ha tenuto calmo”.

VC: “Quella canzone parla del non riuscire a dormire, la notte, e di tutte quelle cose che ti passano per la testa mentre tutte le persone che vivono con te stanno riposando. Resti lì a pensare a cose come la tua mortalità, i tuoi problemi, le tue preoccupazioni. C’è una sorta di fantasma che ti entra nella testa quando sei lì, di fronte alla TV, a riguardare per l’ennesima volta lo stesso programma e trovi conforto in cose semplici, come sentire un qualsiasi suono che ti faccia rendere conto dell’arrivo di un nuovo giorno”.

Il titolo In the Land of Giants da dove viene?

VC: “Ho scritto In the Land of Giants circa tre anni fa. Io e Magali, la mia ragazza, ci eravamo sposati abbastanza all’improvviso. Non l’avevamo previsto, ma abbiamo dovuto farlo perché lei è canadese, stavamo insieme da molti anni, e lei sarebbe stata espatriata a breve. Non potevamo lasciare che succedesse, quindi sposarci le avrebbe permesso di restare”.

È abbastanza inconcepibile pensare che una coppia possa rischiare di essere divisa così arbitrariamente.

VC: “Non avevamo nemmeno tanti soldi, quindi il matrimonio non è stato esattamente come ce l’eravamo immaginato. È stato tutto molto veloce, siamo andati in tribunale senza nemmeno invitare nessuno. Era un po’ come se fosse il nostro segreto – il che lo rendeva strano, ma anche giusto e naturale, perché volevamo restare assieme. A quel punto, le ci volevano 18 mesi per ottenere il permesso di soggiorno. E per tutto quel periodo non poteva lasciare il paese per visitare la sua famiglia, in Canada. In quell’anno e mezzo sono morti entrambi i suoi nonni e lei non è potuta andare al funerale, sua mamma si è sposata e non è potuta andare alla cerimonia… è stato davvero intenso. I documenti sono finalmente arrivati appena dopo l’uscita del nostro ultimo disco, giusto in tempo per poter partire in tour in Europa. Ero andato con lei a prendere la green card e, mentre la aspettavo seduto fuori dall’edificio, un piccione mi è arrivato vicino alla scarpa. Mi ha guardato, e improvvisamente mi sono venute in mente quelle parole. Pensavo a come ci si deve sentire ad essere una piccola creatura e a guardare dal basso un animale più grande di te – e quindi ad essere un immigrato in un paese immenso come l’America. Pensavo al potere, alla dimensione delle cose e a che cosa significa sentirsi piccoli e indifesi”.

Dato che la canzone dopo si intitola (you’re a giant now), le cose sono andate per il meglio alla fine.

VC: “Sì. Il messaggio che vorrei gli altri percepissero ascoltando questo disco è, “Va tutto bene, tu vai bene. Devi essere forte, e ce la farai. Qualsiasi cosa ti sta tenendo fermo, combattila. Qualsiasi cosa sia”. Volevo che ci fosse un generale senso di speranza”.

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Fare il musicista è la tua unica occupazione? 

VC: “Per gli ultimi due anni è stato il mio lavoro, praticamente. Prima che uscisse In the Land of Giants consegnavo ossigeno medico alle persone. Andavo da persone con malattie gravi, come il cancro ai polmoni, a consegnare bombole di ossigeno puro. Penso che un’esperienza come quella abbia influenzato molto il disco, è andata avanti per un anno prima che iniziassi a scriverlo. Mi ha colpito a livello psichico, ma capita che ritorni a farlo, nelle pause tra un tour e l’altro. Ho passato la maggior parte dell’ultimo paio di anni a lavorare quasi solo sulla musica, ma insomma, non stiamo facendo su milioni di dollari. Per adesso (ride). Fare un lavoro così è solo parte di un quadro più grande che ci permette di andare avanti a fare musica”.

Stavo leggendo qualche post sul tuo blog, e ne ho trovato uno in cui parli delle origini di Too Much Dark, il primo pezzo del disco. L’influenza maggiore è quella di Jeff Mangum dei Neutral Milk Hotel, a quanto ho capito. Mi puoi spiegare un po’ meglio che cosa c’entra?

VC:  “C’è un nostro caro amico, Ennio, un fotografo fantastico che non fa che girare continuamente per l’America e il Canada a scattare foto. È un tipo fantastico. Jeff è un suo amico, e sia io che Magali adoriamo i Neutral Milk Hotel. Jeff doveva fare un concerto a Brooklyn, e questo in un periodo in cui non stava facendo assolutamente nulla fa un punto di vista musicale da almeno 15 anni. Avevamo sentito delle voci, allora chiedemmo ad Ennio se fossero vere – lui chiamò Jeff, che confermò la cosa. Quindi Ennio ci fece entrare a questo concerto, in un loft vuoto a Brooklyn. C’erano cinquanta persone al massimo. Jeff fece tutto In the Aeroplane Over the Sea, oltre che un sacco di pezzi del primo disco, e fu incredibile. Un’esperienza trascendentale. Guardai Magali e aveva le lacrime agli occhi, come pure mia sorella – che suona il basso con noi – e il nostro batterista, Pat. Ed eravamo tutti lì, a fare quest’esperienza emozionante, assieme. Il giorno dopo mi misi a pensare alla cosa. Avevo ancora dentro tutte quelle sensazioni e mi chiesi che cosa poteva portare una persona così brava ad emozionare ad appendere gli strumenti al chiodo per così tanto tempo. Ai tempi, poi, avevo appena fatto un disco molto “scuro” con i Soft Black, e avevo letto un’intervista a Jeff in cui dichiarava che uno dei motivi principali per cui aveva smesso era perché pensava che le cose che stava scrivendo fossero troppo pesanti e buie. Allora mi ci sono identificato. In quel momento pensai, “Che messaggio voglio far passare alle persone?” E la risposta era, “Voglio fare musica che faccia sentire forti le persone, che le faccia stare bene, che gli dia speranza”.

Invece, in un altro post, parli di Cindy + Me come “il tuo tentativo di vivere un sogno da adolescente”.

VC: “Mi sono divertito molto a scrivere quella canzone – è basata su un sample preso da Cindy Electronium di Raymond Scott, che poi ho rallentato. Le parole mi sono venute con naturalezza. Quando scrivo può essere un processo mentale molto lungo come pure un’esperienza più fisica. In quel caso, ho iniziato a cantare e mi sono reso conto che quella che stavo raccontando era una fuga da casa. Provare a convincere la ragazza che ami ad andare via, a scappare dalla città, dalla casa dei tuoi genitori che non ti capiscono. Dopo esserti portato via i loro soldi. È tutto finto ovviamente – adoro i miei genitori (ride). È solo fantasia, un piccolo film”.

Una cosa che mi ha fatto sorridere è il modo in cui giochi con la lingua inglese – usi un sacco di faccine, non ti fai problemi a inserire nelle canzoni cuoricini e simboli vari, come quello del dollaro. Insomma, hai canzoni chiamate Instant <3breaker e Piles of $$$

“Penso sia solo un modo per commentare il mondo in cui viviamo – un mondo che spesso passa per una tastiera. Adoro il tempo passato, ma anche tutto ciò che rappresenta il presente. Quindi scrivere in quel modo è un tentativo di incorporarlo. Di riconoscere l’epoca in cui questa musica sta venendo scritta”.

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