Berlino: Berlin Festival, organizzazione tedesca

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È il terzo anno consecutivo che ho l’opportunità di assistere al Berlin Festival. Il bilancio è indubbiamente positivo: per la scelta artistica che riesce sempre a bilanciare mainstream indie/electro (Primal Scream, Mogwai, Killers, Paul Kalkbrenner, Sigur Ròs, Franz Ferdinand, Boys Noize) e nomi ancora in fase di ‘sviluppo’.

Quello che mi ha sempre colpito di più è l’organizzazione, in questo caso tipicamente tedesca (anche se come ho più volte sottolineato in questa rubrica, Berlino non è la Germania, ma un’entità a sé stante). Tre palchi che diffondono musica in contemporanea, un bel mix di rock ed elettronica e diverse attività collaterali come l’Art Village, l’area relax ed una scelta gastronomica che accontenta dai vegani agli amanti del bratwurst, passando per la cucina etnica.

L’edizione 2013 si è tenuta gli scorsi 6 e 7 settembre presso l’usuale sede del Flughafen Tempelhof, l’ex aeroporto adibito negli ultimi anni ad ospitare eventi (mentre le piste sono diventate un enorme parco). L’atmosfera del festival è quindi totalmente incentrata sul tema ‘aeroporto’: per accedere al festival si passa infatti da quelli che una volta fungevano da check-in e proprio lì, signorine vestite da hostess scambieranno il biglietto con il braccialetto ufficiale del Berlin Festival.

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L’Art Village.

Non vi farò l’elenco del programma, per quello potete consultare il sito ufficiale , ma mi concentrerò su ciò che mi ha maggiormente colpito nella due giorni.

Il venerdì si arriva e si fa un immancabile giro in sala stampa (quest’anno molto più piccola rispetto alle scorse edizioni) ed una perlustrazione di tutta la venue, fermandosi tra bancarelle curiose ed altre utili (ad esempio quella che raccoglie fondi per il Festsaal Kreuzberg, storico locale andato a fuoco lo scorso mese di luglio) e facendo un salto all’Art Village, dove si tengono performance e installazioni curiose (come la mastodontica e irriverente ‘Church of Phonk‘, creata dall’omonimo collettivo artistico).

Sul Pitchfork Stage è già l’ora dei Tomahawk di Mike Patton. La cornice di pubblico è a dire il vero piuttosto scarsa rispetto alle mie aspettative e se ne accorge anche lo stesso Mike, che cerca di spronare più volte la platea. Purtroppo non riesce a sortire alcunché e così inzia a prendere per i fondelli il pubblico tedesco: “Hey Germans, it’s ok to have fun!” o ancora facendo allusioni alle note e pericolose passioni teutoniche del passato per la propria patria. Ma ci scappa anche un “Che cazzo vuoi?” ad un italiano tra le prime file.

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Blur.

Si corre verso il Main Stage dove sono già pronti i Blur, star della serata. Ci si guadagna le prime file abbastanza agilmente ed ecco Damon Albarn e soci. Ventimila persone sono assiepate per la formazione inglese e tra loro si intravede anche Michael Stipe: l’ex frontman dei R.E.M. si trova in città e questo non è il primo avvistamento dell’ultimo periodo. La scaletta è un greatest hits ed è la stessa dei concerti italiani: l’inizio col botto di Girls & Boys, There’s No Other Way, Beetlebum, Out of Time, Coffee & TV, Parklife (con l’attore Phil Daniels a rappare sul palco) e poi la chiusura con l’uno/due The Universal e Song 2. Alla fine mi viene da pensare che era da tanto che non assistevo ad un concerto così divertente e che per tutta la durata del set (un’ora e mezza) non ho mai guardato che ora fosse o pensato di aver voglia di una pausa o di una birra. Rarità.

Il sabato riesco a vedermi uno stralcio dei White Lies (senza infamia e senza lode), prima di godermi il ritorno dei My Bloody Valentine. L’audio non è dei migliori, ma si ha talmente voglia di sentire per la prima volta dal vivo brani come Only Shallow, Soon e You Made Me Realise che si perdona qualche piccolo difetto a Kevin Shields e soci. Tra il pubblico si scovano anche i Modeselektor (che forse ancora non sanno dell’incidente che proprio quel giorno coinvolgerà Apparat facendo posticipare tutto il tour dei Moderat).

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White Lies.

È l’ora di Bjork, che dal vivo, a seconda dell’umore, è sempre un’incognita. Stavolta però la ‘piccola’ islandese è in grande forma ed è accompagnata ‘semplicemente’ da un batterista, un uomo alle macchine e da un coro femminile che all’occasione si trasforma anche in corpo di ballo. I visual sono stratosferici ed anche la setlist, che include brani come Hunter, Moon, Hidden Place, Army of Me fino a Hyperballad ed alla conclusiva Declare Independence, in cui Bjork chiede a tutti di ballare e lasciarsi andare. Anche lei lo farà: sul palco e qualche ora dopo, quando verrà scovata sulla pista del Berghain (uno dei club techno più noti di Berlino).

Il Berlin Festival continua invece al Club Xberg (allestito presso l’Arena Club a Kreuzberg), con decine e decine di bus navetta che trasportano la gente dal Tempelhof al club. Teutonici. La serata è curata dalla Ed Banger, famosa etichetta francese che ha lanciato i Justice. Ed è proprio il duo francese la star della serata: un dj set che miscela pezzi propri, electro ed anche alcune variazioni sul tema (pezzi di Queen e George Michael, ad esempio), che solo chi si è guadagnato una grande credibilità come loro si può permettere di inserire in un contesto del genere. Chapeau ai Justice ed al Berlin Festival, che ancora una volta si è rivelata una macchina organizzativa perfetta. Forse noi italiani sapremmo metterci quel pizzico di carattere in più, ma questa è un’altra storia.

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