Intervista: Dirty Beaches

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Dirty-Beaches-Love-Is-The-Devil

di Elia Alovisi

Alex Zhang Hungtai, aka Dirty Beaches, non dice nulla nelle sue canzoni. O comunque quello che dice non si capisce, tra gli strati di musica che circondano la sua voce (quando c’è). Sono tanti pezzetti, tanti quanti i luoghi che ha visto nei suoi tour infiniti ed evanescenti come i troppi in cui ha vissuto. Il suo ultimo (doppio) album è un disco di opposti, lontanissimo dal precedente Badlands (2011). Lì, Alex sembrava uscito da un diner americano degli anni ’50, tra brillantina nei capelli e chitarrine un po’ country un po’ rock ‘n’ roll (campionate, ovviamente). Prima ancora, il suo lavoro si perde in un caos di cassette, split ed EP (basta dare un’occhiata al suo Bandcamp, che neanche li contiene tutti): ma è in questi che affonda le radici Drifters/Love Is the Devil.

Drifters è sporco, buio, sudato e casinaro. Love is the Devil, invece, è lungo, silenzioso, gelido e inquietante. Nella prima metà, drum machine ossessionanti e crescendo distorti. Nella seconda, delay eterei e feedback avvolgenti. E un generale senso di abbandono, di movimento incessante tra città appena accennate (Belgrade, Berlin) e figure evanescenti, lì lì per essere lasciate indietro, o dimenticate (Like the Ocean We Part, I Don’t Know How to Find My Way Back to You).

Inizierei dalla citazione di Charles Bukowski che accompagna il video di Love is the Devil: “L’amore è una nebbia che brucia assieme alla prima luce del giorno della realtà”.

Alex Zhang Hungtai: “Mi è sempre piaciuta quella frase. L’ho presa da una sua intervista che ho visto su YouTube tanto tempo fa. Ha riacceso il mio interesse per lui. L’avevo letto molto mentre ero in high school ed è stato davvero bello tornare indietro, riscoprire quei libri che mi avevano appassionato da ragazzo. Ai tempi pensavo fosse molto romantico, ma adesso lo trovo davvero triste e onesto, in tantissimi modi. Quando ho scelto quella frase mi piaceva l’idea che sia possibile vedere le cose da due angolazioni completamente diverse, con il passare del tempo. Invecchi, e vedi tutto in modo diverso”.

In Drifters giochi molto con l’elettronica, spostandoti anche in territori più estremi e rumorosi rispetto a quelli dei tuoi vecchi lavori.

AZH: “Mi piacciono molti aspetti del rumore, ma allo stesso tempo non sopporto tutto ciò che è unidimensionale. Ad esempio, non comprerei mai un CD harsh noise per ascoltarmelo a casa e poi dire, “Oh, è davvero piacevole”. Ma mi piacerebbe molto andare a un concerto noise e guardare qualcuno creare quei suoni. È una sensazione davvero intensa. Ho provato a prendere questi elementi e, con essi, dipingere un’emozione complessa. Su questo disco ci sono diversi pezzi drone basati sulla chitarra – cosa che avevo fatto anche in passato. Però chi mi ha conosciuto con Badlands potrebbe prendere la cosa come una sorpresa, questo sì”.

Perché pensi che per alcuni sia difficile accettare l’evoluzione artistica di un musicista?
AZH: “Li capisco, ci sono persone molto attaccate alle canzoni. Vorrebbero poterle sentire suonate dal vivo per sempre. Ma io sono un essere umano. Non penso sia giusto, e penso sia uno dei motivi per cui la musica è meno apprezzata rispetto ad altre forme d’arte come il cinema, la pittura o la scrittura. Nessuno chiede a un pittore di ridipingere lo stesso dipinto. Ad ogni modo, divido l’arte in due categorie. È molto facile: chi fa arte e chi parla di arte. Io voglio fare parte solo di quelli che la fanno. Se c’è qualcuno che vuole criticare o sfottere il lavoro di un’altra persona, liberi di farlo. Io ne resto fuori (ride)”.

È molto particolare il modo in cui riesci a creare da solo atmosfere che normalmente vengono create da band di quattro o più elementi.

AZH: “Penso sia solo una questione di circostanza. Faccio tutto in casa con software di registrazione di scarsa qualità, penso che molte altre persone possano fare quello che faccio io”.

Perché stavolta hai deciso di non usare sample?

AZH: “È una storia divertente… è che ho avuto diversi problemi legali con l’ultimo disco. Devo dire che [i proprietari dei sample] sono stati tutti molto gentili con me. È che non sono abbastanza famoso da dargli fastidio. Non hanno nemmeno perso tempo a farmi causa, non ne sarebbe valsa la pena (ride). Sono riuscito a trasmettere il mio concetto: volevo solo giocare, riportare musica passata nel presente. Mi piaceva anche l’idea di rubare qualcosa. Ho usato pezzi di una band giapponese che aveva copiato pezzi di una band americana per creare una sorta di cerchio e farla tornare musica americana. I Led Zeppelin e i Rolling Stones prendevano pezzi di musicisti blues, ma a quanto pare suonare musica di altri non significa rubarla. Farne dei sample, invece, sì. Ed è piuttosto ipocrita.”

Dirty Beaches 01 small

Foto via Facebook

Molte delle nuove canzoni hanno nel titolo il nome di una città, come se fossimo di fronte a una sorta di diario di viaggio. Solo, un po’ malinconico – su tutte, Berlin.

AZH: “È la mia vita, e sto provando a presentarla come un film. Ti ci trovi di fronte e non devi per forza divertirti guardandolo, ma in un certo senso riesci a entrarci dentro e ad apprezzare ciò che mostra. Non sto cercando di far deprimere chi mi ascolta, ecco (ride). Volevo solo documentare un periodo che ho passato. Ho scritto Berlin appena mi ero trasferito lì. Era il primo giorno di neve. In quella canzone c’è anche un elemento positivo: mi sentivo circondato da un nuovo ambiente, pronto a ricominciare una nuova vita. Ma c’è dentro anche la tristezza di tutto quello che mi ero lasciato dietro.”

La vita ti ha portato ad abitare in tantissime città, no?

AZH: “È una storia davvero lunga, provo a semplificarla. La mia famiglia si è trasferita da Taiwan a Toronto, poi siamo andati alle Hawaii, a San Francisco, a Shanghai e sono arrivato a Montreal quando avevo 25 anni. Anche se non la percepisco davvero come casa mia, è solo un posto in cui ho vissuto negli ultimi 5 anni”.

In tutto questo, quanto è difficile sentirsi a casa?

AZH: “Molto. Penso sia così perché non posso tornare nel luogo da cui vengo. Quando torno a Taiwan, mi vedono come uno straniero. In Cina, mi vedono come taiwanese. In Canada, mi vedono come cinese. È stancante spiegare a tutti la differenza tra taiwanese e cinese, a volte semplicemente accetto la cosa e dico, “Ok, sono cinese, va bene” (ride). Crescendo, tutti continuavano a dirmi che non ero mai abbastanza “del luogo”. Credo che questo abbia influenzato molto il modo in cui scrivo. In me ci sono tratti di tutti i posti in cui ho vissuto.”

Sei mai riuscito a tornare a Taiwan da musicista?

AZH: “No, non ce l’ho ancora fatta. Ho fatto un tour in Asia, tra Giappone, Cina e Corea, però”.

Che sensazione ti ha lasciato quel tour? E che cosa pensi del fare arte in Asia?

AZH: “Si sentiva una certa divisione tra classi sociali, come un po’ ovunque nel mondo. Una cosa che ho notato era che la maggior parte delle persone che venivano agli show faceva chiaramente parte della fascia più “educata” della popolazione. Il problema dell’arte, là, è che non viene valorizzata all’interno delle famiglie. Ogni artista deve passare per quella fase in cui decide che quello è il suo lavoro, e in Asia solitamente si ritrova i genitori contro. E allora non devi affrontare solo i critici, hai molti più nemici. Torni a casa e ti trovi di fronte tuo fratello o tua sorella a dirti, “Perché fai questo lavoro? Non fai soldi!” È davvero difficile”.

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Foto via Facebook

In passato hai lavorato alla colonna sonora di Water Park di Evan Prosofsky. È stata un’esperienza gratificante?

AZH: “È stato fantastico. Se potessi farlo come lavoro principale, sarebbe l’unica cosa che farei. Avrei dovuto lavorare su un film italiano, ma poi la cosa non è partita. Attualmente sto parlando con un regista argentino e dovrei scrivere la colonna sonora del suo nuovo film, ma mi sono promesso di non parlarne finché il progetto non è finalizzato”.

Il cinema influenza in qualche modo la tua musica?

AZH: “Mi piace pensare allo scrivere musica come al lavoro di un regista che cerca sempre di fare film di generi diversi. E la cosa si basa sul casting, sulla storia e sull’estetica. Normalmente, fare parte di una band ti inquadra in un genere determinato. Vedi i Rolling Stones: un solo suono, per sempre, per il resto della tua vita. È lodevole, e sono felice per loro, ma non è quello che voglio fare io. Ci sono così tante cose che voglio dire ed esprimere che mi sembrerebbe troppo chiuso fermarmi in un genere. Il casting sono io che scelgo l’argomento e il modo migliore per raccontarlo. Ad esempio, Badlands parla di rockabilly e dell’uso di sample. Drifters e Love is the Devil sono basati sugli stessi concetti, ma sono espressi con uno stile diverso. L’estetica e la storia restano sempre basate sulla mia vita”.

Spesso pubblichi sul tuo blog fotografie dai tuoi tour, piccole frasi e spiegazioni, un po’ come se volessi far entrare chi ti ascolta nella tua vita.

AZH: “Penso che condividere sia splendido, soprattutto fotografie. Aiuta a concretizzare l’immagine che gli altri hanno di te. Mi spaventa quel processo per cui la gente si fa un’idea sulla tua persona, magari solo dopo aver ascoltato qualche pezzo ed aver letto qualcosa su Pitchfork. Possono nascere immagini totalmente parziali. A volte incontro fan che mi fanno domande strane, tipo, “È vero quello che si dice di te?” E la mia risposta non può che essere, “Perché, che cosa si dice? Che hai letto?” (ride). È davvero strano, a volte. Sul blog cerco di essere il più onesto possibile e di non lasciare niente di non detto”.

Girandoci un po’ dentro, ho trovato un post particolarmente toccante. Parli di un tuo amico, Shane, che lavora su un peschereccio in Alaska. Lo definisci “il tuo idolo” per il modo in cui si spezza la schiena per guadagnarsi il pane e racconti un po’ di episodi che gli sono accaduti. Sei ancora in contatto con lui?

AZH: “Sì, è uno scrittore. Adesso vive a New York, e forse ora è in una situazione più difficile di prima… insomma, è difficile in un modo diverso.  Quando era in Alaska la difficoltà era a livello fisico, ma era accompagnata dalla sicurezza di ricevere un grosso assegno alla fine, seguita da una libertà totale per sei mesi – che usava per scrivere e focalizzarsi sulla sua arte.  New York è una gran bella città, ma tutti devono fare almeno due o tre lavori, vivono in un armadio e sono sempre stressati. Non so se sia più felice adesso o prima.”

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